Roma, 14 settembre 2005                    



al pro-Rettore Vicario delll'Università Roma Tre, prof. Morganti
ai pro-Rettori proff. Moro e Stabili,
al Preside della Facoltà di Lettere, prof. Abrusci
al coordinatore della Commissione Didattica di Lettere, prof. Lopez
Sede


ogg. CONFERENZA DIDATTICA DI ATENEO


Invio anche a voi le mie risposte al Questionario sullo stato della didattica all'Università Roma Tre e in particolare – per quanto mi spetta – sullo stato della didattica nel corso di laurea in Lingue e Comunicazione Internazionale.


Vi interpello direttamente per via del mio collocamento ancora incerto nella facoltà: non so quanto il Collegio Didattico di Lingua e Linguistica, a cui ho inviato copia della presente, riterrà sia il caso far proprie le mie considerazioni. 


E' una vita che rifletto sui mezzi più idonei per migliorare la didattica destinata agli studenti di Lingue e non solo loro: vorrei pertanto che queste riflessioni non andassero perse.


Sono sempre a disposizione per eventuali chiarimenti.


Patrick Boylan                                     

Docente di Lingua e Traduzione Inglese      







(Ometto le domande del Questionario: si capiscono dalle risposte.)


1. Ritengo che, “con l'introduzione della Riforma, ci siano stati sì molti cambiamenti”, anche importanti, nel corso di laurea in Lingue e Comunicazione Internazionale. Ma ciò non ha cambiato realmente il profilo del laureato in lingua, che continua ad essere giudicato dalle Università straniere e dal mondo del lavoro insufficientemente preparato sul piano


Il corso di laurea, infatti, rimane come prima, essenzialmente imperniato sulla linguistica descrittiva e sulla filologia, anche con la creazione delle nuove cattedre di lingua. Con poche eccezioni, continua a non dare spazio all'insegnamento ufficiale delle lingue in quanto vive.


L'istituzione di cattedre per l'Arabo e per il Cinese è stata meritevole ma, essendo in numero insufficiente, esse non cambiano sostanzialmente il quadro. Da mezzo secolo le lingue vengono offerte dalle Facoltà di Lettere per attirare studenti desiderosi di padroneggiarle, ma che vengono poi dirottati verso le materie meno richieste in facoltà, rese obbligatorie. Per cui se prima gli studenti venivano formati insufficientemente nelle lingue europee, ora vengono formati insufficientemente anche in quelle non europee. Il quadro, dunque, non è cambiato sostanzialmente.



2. --



3. In quanto al biennio (Corso di Laurea Magistrale) offerto agli studenti di Lingue e Comunicazione Internazionale, esso non viene affatto considerato dagli studenti come “indispensabile prosecuzione della loro formazione di 1° livello”, proprio per il motivo appena indicato. Come nel triennio, l'impostazione rimane essenzialmente descrittiva, filologica e di materie umanistiche generali -- proprio l'impostazione che spinge molti studenti ad abbandonare l'università anziché laurearsi o proseguire al CLM. La bassa affluenza nel biennio parla da sé.



4., 5., 6. --



7. Il superamento della titolarità disciplinare, introdotta con la Riforma, è stato invece un fatto molto positivo. Si è tradotto in “maggiore efficacia e razionalità dell’offerta didattica”, consentendo una offerta molto più creativa degli insegnamenti modulari. Può effettivamente prestarsi ad abusi come “il diffondersi della docenza non strutturata (contratti, supplenze esterne …)” in cui l'incaricato non ha né la stabilità necessaria per impiantare un nuovo insegnamento e nemmeno il peso accademico per proporlo. Occorre dunque una forte limitazione nell'utilizzo della docenza non strutturata.



8. Anche la “modularità” costituisce un punto positivo della Riforma, proprio per la flessibilità che offre agli studenti. Andrebbero però eliminati moduli di meno di 4 crediti (occorrono almeno 30 ore di lezione per impiantare un qualsiasi indirizzo disciplinare).



9. In quanto all'”eccessiva frammentazione nell’offerta didattica”, essa esiste da sempre nell’offerta didattica a Lingue, e non solo con la Riforma, proprio per il motivo storico accennato alla prima risposta. Agli studenti di lingue vengono imposti insegnamenti non centrali alla loro core formation allo scopo di sostenere le materie meno richieste in facoltà. La frammentazione che ne risulta vanifica il titolo stesso della laurea in Lingue e COMUNICAZIONE INTERNAZIONALE.



10. Ritengo desiderabile, dunque, un triennio a Lingue che dia una solida formazione disciplinare, con due curricula distinti: uno filologico-linguistico e uno di "lingua viva" (demoantropologico e di scienze della comunicazione). In quanto al biennio successivo, proporrei l'aggiunta di un curriculum di “formazione glottodidattica”.



11. Altro fatto positivo: l’attuazione del nuovo ordinamento ha infatti “incoraggiato la frequenza degli studenti alle attività didattiche”; la frequenza a lezione è passata infatti da circa il 30% di tutti gli studenti che si presentano agli esami a circa il 60%. Ciò è dovuto al fatto che molti studenti seguono le lezioni inizialmente per capire l'impostazione del docente: i moduli sono spesso così brevi che, quando lo studente ha finalmente capito l'impostazione, il corso sta sul punto di concludersi. Ciò non avveniva con i corsi annuali.



12. Il coordinamento con gli altri Atenei romani è essenziale, sia per i motivi indicati nel questionario, sia per la razionalizzazione dell'offerta (punto non indicato nel questionario).



13. In quanto allo svolgimento degli esami e alle modalità per le tesine, non ritengo proponibile la definizione di orientamenti e di norme a livello dell'Ateneo. Esistono infatti troppe disparità, da area ad area, nella visione della funzione formativa. Tuttavia per quanto riguarda i voti sarebbe possibile attuare una politica di percentuali con una “scala scorrevole”. Lo spostamento in su o in giù della scala va motivato nel verbale. Questo accorgimento dà ampia libertà al docente di aggiustare i voti ma impone una visione complessiva e comparativa (che oggi manca) a tutela degli studenti: con questo sistema diventa più difficile “fare strage” o “regalare voti” in quanto bisogna motivare un forte spostamento della scala scorrevole, in basso o in alto.


In ogni modo, quale che sia il sistema adottato, una maggiore uniformità nell'assegnazione dei voti, a livello d'Ateneo e certamente di area, darebbe maggiore credibilità al valore legale della laurea. Dovrebbero pertanto essere molto ridotti i margini di autonomia per i singoli Corsi di Studio.





--------------------------------------- APPENDICE -------------------------------------------




Auspico che la Conferenza sulla Didattica che si terra quest'inverno conceda spazio per parlare della didattica, non soltanto nei termini prevalentemente amministrativi indicati nel questionario appena discusso, ma come ricerca di risposte alle domande fondamentali che solleva ogni processo formativo:


-- Che cosa potremmo fare per migliorare la capacità degli studenti di assimilare le discipline a loro insegnate?


-- Cosa significa dunque "insegnare" in una università di massa? Se l'insegnamento ex-cathedra si è dimostrato fallimentare, poiché non consente ai meno dotati in partenza di sviluppare le proprie capacità di apprendimento, con che cosa va sostituito?


-- Che cosa potremmo fare per elaborare un'offerta didattica più in linea con le richieste di sapere che provengono non solo dagli studenti ma dalla società tutt'intera?


-- Cosa significa "valutare" uno studente e quale tipo di conoscenza viene valutata tramite l'esame orale omni-comprensivo? Quali modalità di valutazione sarebbero più attendibili?



Con queste domande ritengo che arriviamo al cuore stesso del processo formativo che intendiamo migliorare.


A titolo di "ultime volontà", indico dunque le mie risposte attraverso sei auspici che formulo per tutti i corsi di laurea dell'Ateneo. (Il primo può sembrare destinato al solo Corso di Laurea in Lingue e Comunicazione Internazionale; in realtà si rivolge a tutti i corsi di laurea anch'esso.)





1. Auspico che venga privilegiato nell'ateneo l'insegnamento delle lingue in quanto vive.


Va tenuto presente, per evitare equivoci, che il concetto di "lingua viva" non si riduce al concetto di “lingua parlata”. Infatti l'insegnamento della “lingua viva” va ben oltre ciò che viene generalmente considerato il compito dei lettori, ossia l'insegnamento delle funzioni grammaticali/pragmatiche e la “conversazione”.  (In realtà, anche molti lettori insegnano già nell'ottica descritta qui di seguito.)

L'insegnamento “vivo” delle lingue mira ad impartire metodologie per indagare atti comunicativi in lingua – metodologie che siano diverse da quelle create per lo studio delle lingue morte.

Nel insegnare le lingue in quanto morte, si mira a dare agli studenti strumenti come la comparazione filologica o l'analisi grammaticale o la ricostruzione fonologica: questi strumenti sono stati creati, infatti, per la comprensione di TESTI GIÀ ELABORATI -- non testi da elaborare, non EVENTI da afferrare e da gestire.

Invece nel insegnare le lingue in quanto vive, si mira a dare agli studenti strumenti psicolinguistici ed etnografici per afferrare le interazioni in cui essi stessi prendono parte attiva (osservazione partecipante). Gli atti comunicativi in lingua vengono studiati non come testi bensì come EVENTI – eventi VISSUTI, da gestire correttamente in tempo reale.

Concludo facendo notare che solo l'apprendimento vivo delle lingue -- nel senso tecnico usato qui -- possa consentire ai nostri laureati di saper trattare con culture diverse e di far valere i prodotti dell'ingegno italiano -- studi scientifici o collane cinematografiche o quant'altro -- in termini che un interlocutore straniero possa capire subito e apprezzare.


Privilegiare lo studio vivo delle lingue significa affrontare un notevole onere finanziario e richiede dunque il concorso di tutte le facoltà dell'ateneo. I corsi di laurea che decidono di privilegiare l'insegnamento vivo delle lingue devono infatti disporre di più docenti ufficiali per ogni lingua (per consentire una didattica attiva, essenziale per poter insegnare una padronanza produttiva in lingua e una capacità d'analizzare un'interazione vissuta in tempo reale). Inoltre questi corsi di laurea devono attivare molti insegnamenti complementari. Mi riferisco alle scienze demo-antropologiche e dell'habitat incentrate sulle aree linguistiche d'interesse, alle scienze della comunicazione incentrate sulle aree linguistiche d'interesse, a certe discipline dell'area sociologica e in particolare alla comunicazione interculturale, etc.


Potenziare Lingue costerà, dunque, e molto. Ma farà risparmiare, a lungo andare. Poiché il motivo per il quale bisogna spendere somme considerevoli oggi per i lettorati, per il CLA, per l'insegnamento delle lingue negli altri corsi di laurea, per le traduzioni, ecc., è perché la stragrande maggioranza di coloro che si iscrivono in qualsiasi Facoltà, non ha imparato a scuola a padroneggiare le due lingue studiate. Ciò è dovuto a molteplici motivi ma il principale è che gli insegnanti nella Scuola provengono dai nostri corsi di laurea in lingue che, tradizionalmente, non privilegiano l'insegnamento delle lingue in quanto vive. Inoltre i programmi SSIS danno necessariamente per scontato la formazione disciplinare dei loro iscritti -- non dispongono del tempo materiale per ri-impostare la loro formazione -- e quindi non viene impartita neanche lì una conoscenza delle lingue in quanto vive. Infine, proprio perché una conoscenza viva di una lingua implica raffinate capacità analitiche in situ e molte conoscenze demo-antropologiche e retorico-espressive a monte, non è possibile far acquisire una vera padronanza di una lingua semplicemente mandando gli studenti a soggiornare all'estero.


Ma se l'Ateneo decidesse di privilegiare il filone "lingua viva" nei corsi di laurea interessati, formerebbe futuri insegnanti della scuola assai più capaci. Di colpo, ciò eliminerebbe gran parte della necessità di "rimediare" alle carenze linguistiche delle matricole tramite i lettorati, tramite i corsi al CLA, tramite docenze di lingue nei vari corsi di laurea, ecc. Il risparmio è a lunghissima scadenza ma potrebbe essere notevole.




2. Auspico che venga privilegiata la didattica attiva in aula, svolta anche in una visione costruttivista del sapere.


Per "didattica attiva" non intendo un insegnamento in cui il docente si alza e si muove, fa vedere filmati, distribuisce dispense, gesticola animatamente. Assolutamente no. Al contrario. Per "didattica attiva" intendo un insegnamento in cui gli studenti sono attivi durante buona parte della lezione, risolvendo problemi, formando gruppi di discussione, impostando simulazioni, distribuendo i prodotti delle loro ricerche, confrontandoli tra di loro e poi con il modello offerto dal docente.


Questa raccomandazione vale per tutti gli insegnamenti e non solo per lingue. Non disconosce la necessità di "trasmettere il patrimonio di conoscenze accumulate" ma distingue due fasi nella formazione degli studenti: (1.) una fase in cui quel patrimonio viene assimilato, (2.) una fase in cui lo studente impara ad utilizzare creativamente quel patrimonio, costruendoci sopra. Si tende a far corrispondere la prima fase al triennio, la seconda a qualche forma di specializzazione. Oppure si fa corrispondere la prima fase al triennio fino all'ultimo esame e la seconda fase alla stesura della tesi di laurea. Ma l'inefficacia di queste soluzioni salta agli occhi: solo una piccola parte degli studenti fa la specialistica e la tesi del triennale si è ridimensionata troppo per consentire un serio lavoro di dinamizzazione delle conoscenze. Pertanto se non si pratica una didattica attiva in aula sin dal primo anno, il triennio rischia di formare una massa di laureati con mere conoscenze mnemoniche. Del resto, questa accusa è stata più volte fatta alla stessa laurea quadriennale, per quanto riguarda la massa dei laureati (solo gli studenti che erano seguiti attentamente dai docenti durante la stesura della tesi acquistavano conoscenze dinamiche produttive).


Una ampia letteratura dimostra invece che è del tutto possibile far svolgere la fase (1.) e la fase (2.) contemporaneamente, sin dal primo anno, appunto attraverso una didattica attiva in aula svolta in una visione costruttivista del sapere. Un triennio di un siffatto insegnamento produce laureati che non solo sanno la loro disciplina, ma sanno fare nella loro disciplina.


Ciò implica un grosso lavoro supplementare: il lavoro d'impostare e di supervisionare le sperimentazioni portate avanti dagli studenti per riscoprire e far propri i capisaldi della disciplina; il lavoro di correggere gli elaborati prodotti dagli studenti nel fare queste attività; il lavoro di assegnare e di correggere le tesine in cui si costruisce sulle conoscenze assimilate attivamente. Pertanto, se svolto dai docenti, questo lavoro supplementare deve essere riconosciuto in qualche modo (attualmente nei concorsi viene riconosciuta solo la produzione scientifica, non la produttività didattica, ma qualche forma di compensazione potrebbe essere studiata a livello di ateneo). Se viene svolto da figure analoghe ai teaching assistants e ai tutori usati all'estero, bisognerebbe finanziare il loro reclutamento.


Questo auspicio non minimizza in nessun modo l'importanza del lavoro di ricerca scientifica portato avanti dai docenti. Ma prende atto che un docente non forma adeguatamente laureati capaci di incidere sul reale se si limita ad esporre in aula i frutti delle proprie ricerche. In aula bisogna che ci siano docenti autori di ricerche di primissimo ordine, questo sì, ma non perché essi debbono insegnare quanto scoperto, bensì perché solo loro sanno dove sta andando la loro disciplina. Solo questo tipo di docente può impostare bene la formazione di base di chi dovrà utilizzare, in qualsiasi attività lavorativa futura, gli strumenti più aggiornati della disciplina insegnata. Inoltre proprio in quanto autori di ricerche che diano una nuova prospettiva sulla materia, questi docenti sono i più qualificati per individuare gli ostacoli all'apprendimento degli studenti, osservandoli mentre conducono le loro attività in aula.


Spesso si obietta che la didattica attiva in aula "ruba" troppo tempo. E difatti richiede molto più tempo della preparazione di lezioni ex cathedra. Ma bisogna chiedersi piuttosto: Perché i docenti hanno così poco tempo durante l'anno accademico, se la maggior parte si limita a fare solo lezioni ex cathedra? La risposta, a mio parere, è da individuare nell'enorme quantità di pratiche amministrative che i docenti devono sbrigare, anche per via della carenza di personale amministrativo qualificato e numeroso (di cui al punto successivo). Una forte riduzione negli impegni amministrativi dovrebbe dunque consentire ai docenti di praticare una didattica attiva senza investire più tempo nei loro compiti istituzionali di quanto non fanno attualmente.




3. Auspico che venga potenziato il personale amministrativo, in particolare quello dei più alti gradi, in modo da poter togliere gran parte del lavoro organizzativo dalle spalle dei docenti, consentendo loro di dedicarsi maggiormente a svolgere una didattica attiva in aula.


Per capire meglio l'importanza della questione del personale amministrativo in un discorso sulla didattica, un paragone può essere utile.


Per tradizione, fino ad oggi, negli ospedali è stato il primario a decidere autocraticamente non solo chi operare e quando, ma anche chi assumere come infermiere, a quali fornitori dare l'appalto e persino come doveva essere steso il rendiconto delle spese e rifatta la facciata degli edifici. Man mano però che, in questi ultimi anni, i compiti non strettamente medici sono stati assegnati almeno in parte ad amministratori competenti, con qualifiche superiori rispetto a quelle del passato, la produttività degli ospedali in termini di numero di interventi (di ogni tipo) per medico è aumentato notevolmente. Certo, c'è chi lamenta la graduale sparizione degli strapoteri dei primari, ritenendo che la loro gestione fosse patriarcale ma più umana e comunque non più inefficienti di certi ospedali gestiti da amministratori inetti. Tuttavia i numeri stanno dalla parte di chi difende la scelta di incrementare il personale amministrativo qualificato e di assegnargli tutti i compiti non strettamente medici.


Lo stesso discorso, dunque, si potrebbe fare per la docenza universitaria, sostituendo la parola "didattici" per "medici".




4. Auspico che venga introdotta nelle commissioni didattiche a TUTTI i livelli una rappresentanza del territorio (istituzionale, associativa, imprenditoriale, sindacale) e che venga aumentata la rappresentanza degli studenti.


Ciò non significa trasformare l'università in un "vassallo" delle imprese del territorio o esporla ai "capricci" degli studenti. Ma significa obbligare l'università -- anche a livello degli indirizzi decisi dalle commissioni didattiche dei singoli corsi di laurea -- a rendere conto delle sue scelte, in un confronto faccia a faccia con chi rappresenta le esigenze di sapere del territorio e con chi deve apprendere. Vanno difese la libertà d'insegnamento e l'autonomia dei singoli docenti, non c'è dubbio. Ma non è difendibile la pretesa di autonomia nella programmazione degli indirizzi didattici. Essa appartiene alla volontà collettiva, quella stessa che ha istituito e che mantiene l'università.




5. Auspico che venga eliminato l'istituto degli "esami da non frequentante" tranne laddove sono state attuate forme di tele-insegnamento interattivo (con project work di gruppo) che consentano agli studenti non frequentanti di partecipare a lezioni virtuali condotte secondo i principi della didattica attiva.


Certo, la legge consente a chiunque di conseguire una laurea senza frequentare ma sarebbe possibile, a livello locale, istituire una serie di disincentivazioni che scoraggiano il più possibile il ricorso a questo strumento.


Chi si farebbe operare da un chirurgo che ha conseguito la laurea in medicina da non frequentante? Cioè, da un chirurgo la cui "formazione attestata" consiste nella capacità di spiegare il contenuto dei libri ai programmi? Non molti di noi. Se fossimo coerenti, dunque, nella stessa ottica dovremmo pensare due volte prima di far tradurre un testo da un laureato in lingua non-frequentante o far intraprendere uno scavo archeologico da un laureato in archeologia che ha superato i suoi esami senza mai frequentare l'aula né partecipare al field work.


Questo auspicio dipende tuttavia dall'attuazione del primo punto (per quanto riguarda la laurea in lingue) e del secondo punto, per tutte le altre lauree. Scoraggiare la "laurea per non frequentanti" ha senso solo nella misura in cui frequentare le lezioni universitarie abbia un senso. E frequentare ha un senso soltanto quando, frequentando, lo studente acquisisce un sapere vivo, che gli consente di operare sul mondo -- in lingue, in paleografia/diplomatica, nell'epistemologia delle scienze, nelle ricostruzioni storiche, nella valutazione di opere d'arte e via discorrendo. Se invece le lezioni in aula consistono semplicemente nello spiegare il contenuto dei testi al programma, allora non ha importanza se lo studente frequenta o non frequenta, purché sappia spiegare anche lui i contenuti di quei testi in sede di esame. Ma questo non è "sapere" una disciplina.


L'abolizione (fattiva) degli "esami da non frequentante" non deve essere totale: può essere previsto un numero limitato di esami in deroga per ogni studente, approvati da un'apposita commissione che valuta la documentazione prodotta. Inoltre vanno istituiti corsi virtuali interattivi (con project work di gruppo), che valgono come la frequenza in aula, proprio per consentire a chi lavora o chi è malato di poter conseguire una laurea. Infine va posta fine al fenomeno dell'accavallamento dei corsi, che impedisce la frequentazione di alcuni di essi. In teoria il problema di accavallamento dei corsi è di facile risoluzione: esistono appositi software che programmano le lezioni in maniera da evitare conflitti. Ma dobbiamo chiederci se esiste la volontà di utilizzare questi software e di accettare gli orari anche scomodi che necessariamente vengono assegnati ad una parte dei docenti. Il mio quinto auspicio, dunque, è che questa volontà esista e che si faccia sentire alla Conferenza sulla Didattica.


Solo con l'eliminazione fattiva (attraverso la disincentivazione) degli esami da non frequentante -- e contestualmente (1.) l'istituzione del tele-insegnamento interattivo, (2.) l'eliminazione dell'accavallamento dei corsi, (3.) la nomina di una commissione per i casi in deroga e (4.) l'avvio di corsi per frequentanti che giustificano la frequenza poiché imperniati sulla didattica attiva -- possiamo ridare alla didattica in aula l'importanza attualmente sottratta dalla indiscriminata tolleranza della non frequenza.




6. Auspico che vengano eliminati gli esami orali omni-comprensivi, sostituendoli con la valutazione continua e con esami finali molto alleggeriti, metà scritti e metà orali.


Per le argomentazioni in favore di questa scelta, nonché del punto precedente, vedi: http://host.uniroma3.it/docenti/boylan/misc/non-freq.htm#ITALIANO



Infine... Auspico il successo della conferenza.



Patrick Boylan



10/09/2005 (14.38.29)

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Patrick Boylan
Dip.to di Linguistica
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Web: www.boylan.it
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