P. Boylan (2002). "Facoltà tecnico-scientifiche e facoltà umanistiche: tipologia dell'insegnamento linguistico e contributo del CLA", in: C. Vergaro (a cura di), Verso quale CLA? La ridefinizione dei ruoli dei Centri Linguistici d'Ateneo nella prospettiva dei nuovi ordinamenti didattici,* Napoli: ESI   (ISBN 88-495-0569-8)

*Atti dell'omonimo Seminario Nazionale, Perugia, 8-9 giugno 2001
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Facoltà tecnico-scientifiche e facoltà umanistiche:

tipologia dell'insegnamento linguistico e contributo del CLA

 

 

Patrick Boylan

Università di Roma Tre

 

 

Credo sia molto significativo che il futuro Centro Linguistico di Perugia sorga in un padiglione della Facoltà di Medicina.  Ogni anno, infatti, confluiscono nelle facoltà perugine, come nella facoltà universitarie di tutta l'Italia, migliaia di matricole che non hanno imparato bene le lingue straniere a scuola, ma che dovranno leggere testi scientifici in lingua per un esame o per la tesi.  Spetta, dunque, al Centro Linguistico fungere da "infermeria", con il compito di applicare i cerotti del caso e di risistemare gli interventi maldestri subiti da queste matricole a scuola, da parte di insegnanti di lingue ben intenzionati ma non sempre adeguatamente preparati per insegnare le lingue vive in quanto vive.

 

Con queste osservazioni non intendo affatto addossare colpe alla categoria degli insegnanti, né voglio disconoscere i grandi meriti dei moltissimi docenti di lingue che operano nelle scuole oggi e che, talvolta a spese proprie, hanno saputo aggiornarsi dopo la laurea e la specializzazione.  I loro meriti, però, non ci devono far perdere di vista il dilemma della maggioranza degli insegnanti. 

 

I dati ministeriali sono eloquenti al riguardo.  Ci dicono, infatti, che in media gli alunni della Scuola italiana conoscono le lingue molto meno dei loro coetanei del resto d'Europa.  Non solo, ma che buona parte degli studenti italiani arrivati alla maturità è meno disposta ad imparare le lingue di quanto non lo fosse all'inizio della carriera scolastica.  In altre parole, la Scuola è servita più che altro a far perdere la voglia d'imparare le lingue.  Evidentemente qualcosa non va nel processo formativo. 

 

Quale soluzione ha proposto l'università in quest'ultimo ventennio? Risale infatti a 20 anni fa il quesito che il Consiglio Universitario Nazionale (CUN) ha posto al mondo accademico sui mezzi da adottare (tra cui la creazione di "centri linguistici interfacolta'") per colmare le carenze linguistiche degli studenti universitari che a scuola non hanno imparato bene le lingue. Elaborai anch'io una risposta al quesito del CUN, sotto forma di un opuscolo che, ritenuto troppo controverso all'epoca, e' rimasto inedito.[Cliccare qui> 1] Vorrei riproporvi nel mio intervento di oggi le analisi e le proposte elaborate allora in quanto le giudico attualissime ancora oggi.

 

Quale soluzione, dunque, hanno prospettato le università in tutti questi anni?  Purtroppo, la soluzione non è stata quella di riformare realmente i corsi di laurea in lingue per consentire agli studenti d'apprendere non solo le letterature straniere in quanto patrimonio storico da conservare, ma anche le lingue straniere in quanto mezzi vivi di espressione da interiorizzare.

 

Sia ben chiaro: apprendere le lingue in quanto vive non vuol dire banalmente imparare a parlarle, come si fa nelle scuole commerciali. Vuol dire molto di più: pervenire ad interiorizzarle come microcosmi culturali.  Si tratta dunque di un sapere che è diverso dalla semplice capacità di pronunciare, scrivere ed interpretare correttamente brani in lingua — cose che possiamo imparare a fare addirittura in una lingua morta come il Latino o il Greco.  Sapere una lingua in quanto viva significa invece andare ben oltre questi traguardi scolastici.  Significa sapersi relazionare con parlanti madrelingua, a tu per tu, dall'interno del loro mondo linguistico-culturale: saper cogliere, identificare, interiorizzare e riutilizzare i loro schemi interpretativi ed espressivi (cioè, i loro modi di esprimersi che traducono un particolare modo di essere, un particolare universo condiviso di valori vissuti che abbiamo chiamato microcosmo culturale); saper co-elaborare, con loro, regole d'interpretazione condivise, mediante una trasformazione del sé, per creare un terreno d'intesa verificabile empiricamente; in una parola, saper fare – in lingua – l'etnolinguista, il maieuta, l'osservatore partecipante e, infine, il parlante interculturale.[Cliccare qui> 2]

 

Nella maggior parte delle università, invece, le lingue vive vengono ancora insegnate come se fossero lingue morte: cioè gli studenti imparano la pronuncia, la grammatica, e la storia della lingua; imparano ad interpretare e ad inquadrare storicamente brani letterari; ma non imparano a relazionarsi in lingua, a cogliere ed interiorizzare la forma mentis di un interlocutore, a verificare sperimentalmente in situ il significato di una parola, a vivere l'atto espressivo nella sua unitarietà materiale (verbale, prosodica, gestuale...) ed esistenziale (come espressione di valori vissuti condivisi).  Pertanto questi studenti, pur esprimendosi in frasi grammaticalmente corrette e pragmaticamente appropriate, non sempre s'intendono con i loro interlocutori stranieri; non sempre risultano chiari e convincenti; non sempre colgono il senso di ciò che viene comunicato loro attraverso sottili intrecci di parole, effetti prosodici ed espressività non verbale.

 

Questi studenti poi divengono i futuri insegnanti di lingue nella Scuola.  Ma dal momento che non vivono le lingue come habitus mentale, non sanno trasmetterle come tale ai loro alunni.  Anzi, essendo stati abituati dalle lezioni universitarie a considerare le lingue come oggetti da analizzare soltanto, come forme platoniche separate da qualsiasi soggettività culturale propria o altrui, trasmettano ai loro alunni questa visione da entomologo della comunicazione umana.  Non sorprende, dunque, che la maggior parte dei loro alunni, con l'età e gli interessi che hanno, perdono subito la voglia d'imparare le lingue.  Che peccato, potevano sentirle come risorsa per meglio capire e vivere il mondo!

 

Essere competenti nelle lingue vive in quanto vive presuppone dunque aver percorso un processo di trasformazione del sé che si appoggia su insegnamenti antropologici, etnografici, psicolinguistici e filosofici (l'epistemologia, l'ermeneutica).  E' un insegnamento che nulla toglie alla dignità delle scienze filologiche e linguistiche descrittive e tanto meno alla necessità di parlare correttamente anche dal punto di vista grammaticale quando si usa una lingua straniera.  Semplicemente... è un'altra cosa.  Per insegnare in questa nuova ottica non è necessario essere di madrelingua straniera.  Anzi, lungo tutta la penisola – all'Università come nella Scuola – questa impostazione viene già realizzata da qualche docente italiano che non cerca di proporsi come parlante perfetto (del resto, ci sono gli audiovisivi quando servono modelli da assimilare), bensì come il Virgilio di Dante: egli si propone, cioè, come guida capace di accompagnare i propri studenti con successo attraverso un mondo affascinante che, pian piano, li trasformerà – come egli stesso è stato trasformato nel percorrere con successo questo cammino da giovane.

 

E' chiaro, dunque, che riformare le facoltà di lingue per fare in modo che le lingue vive vengano finalmente insegnate in quanto vive, non presuppone l'accantonamento degli insegnamenti descrittivo-letterari. Richiede semplicemente una diversa definizione delle materie da considerare fondamentali e delle materie da considerare complementari e, quindi, una diversa politica di reclutamento dei docenti e dei ricercatori. 



 Certo, dire "semplicemente" può far sorridere: è ben nota la difficoltà di far rimettere in discussione la politica di reclutamento in qualsiasi facoltà universitaria.  Nel caso del settore lingue, è stato forse lo scoglio principale contro il quale si sono urtati e affondati i numerosi tentativi di riforma in questi ultimi 20 anni.  Ed è proprio per via di questi fallimenti che la formazione universitaria in lingue risulta, se non formalmente, per lo meno sostanzialmente identica a quella dei primi corsi di laurea in lingue avviati mezzo secolo fa. 

 

In che cosa consiste questa formazione tradizionale?  Come abbiamo appena precisato, consiste nello studio delle lingue vive con gli stessi strumenti usati per lo studio delle lingue morte – anzi, con gli stessi strumenti ideati 22 secoli fa dai grammatici alessandrini per recuperare il patrimonio omerico, ossia l'analisi grammaticale e l'analisi testuale.[Cliccare qui> 3]  Alcune università offrono anche insegnamenti di sociolinguistica o di linguistica applicata che forniscono, accanto agli strumenti filologici, alcuni mezzi utili per capire sincronicamente interazioni in lingua.  Ma in nessun corso di laurea in lingue straniere viene privilegiato l'insegnamento di quegli strumenti antropologici, etnografici, psicolinguistici e filosofici richiesti per poter interiorizzare consapevolmente (come per poter indagare scientificamente) le lingue vive in quanto tali.  Né vengono privilegiate le forme non cattedratiche d'insegnamento previste dai nuovi ordinamenti, in particolare lo studio assistito, il laboratorio in presenza, il tirocinio. 

 

Ecco, dunque, la causa primaria delle carenze culturali degli insegnanti di lingue nella Scuola: hanno avuto come modello, sia nelle aule universitarie che nelle scuole di specializzazione, insegnamenti quasi esclusivamente descrittivi nei contenuti e cattedratici nella forma.

 

Ma se i corsi di laurea in lingue non hanno voluto rimuovere dalla radice il problema dell'impreparazione linguistica delle matricole, valorizzando lo studio delle lingue in quanto vive, quale soluzione hanno prospettato? 

 

Si intravede già la risposta nel documento CNLLS di 20 anni fa: la creazione di Centri Linguistici con la funzione di "infermerie".  Non centri di ricerca e di didattica, bensì semplici "centri di servizi", cioè strutture d'appoggio relegate ai margini dell'attività vera e propria dell'università e prive per statuto di un corpo docente interno di ordinari e associati per promuovere anche la ricerca e la sperimentazione.  E' ovvio che centri di questo tipo possono tutt'al più "applicare cerotti", non fare interventi di fondo per risolvere la disfunzione del sistema formativo. 

 

Cosa significano queste considerazioni?  Forse che i centri linguistici sono condannati a servire solo da palliativo per consentire alle facoltà di lingue di perpetuare lo status quo? 

 

Per come si presenta la situazione attuale, credo che la risposta sia senz'altro affermativa. 

 

So benissimo che esistono diversi Centri Linguistici Interfacoltà già avviati in Italia in cui, tramite stratagemmi ingegnosi, si è riusciti ad aggirare il tacito divieto di fare ricerca o addirittura di possedere un corpo docente di prima e di seconda fascia.  Ma queste pur lodevoli iniziative dipendono troppo dalla volontà di singoli esponenti; nulla garantisce che, col tempo, le nuove leve alla direzione dei Centri dedicheranno la stessa passione e sapranno escogitare sistemi altrettanto ingegnosi per creare un luogo dove didattica e ricerca si congiungono.  I cambiamenti devono essere strutturali per essere duraturi e, considerando gli attuali rapporti di forza nei consessi accademici, è facile prevedere che non verrà mai consentita la graduale trasformazione strutturale dei Centri Linguistici in qualcosa che somigli, per la presenza di docenti e di ricercatori stabilmente inquadrati, ad una facoltà di lingua viva

 

Ritengo, dunque, che ci sia un solo rimedio affinché l'Italia possa sanare la piaga aperta che l'affligge da troppo tempo, cioè la posizione d'inferiorità linguistica in cui si trovano i suoi rappresentanti, rispetto ai rappresentanti degli altri paesi, nei vari incontri internazionali, siano essi scientifici, commerciali, culturali o altro.  Il rimedio è il riconoscimento fattivo da parte delle facoltà e dei corsi di laurea in lingue che insegnare l'assimilazione delle lingue in quanto vive costituisce una disciplina accademica fondamentale – per essere chiari, una disciplina da affidare essenzialmente, non a "lettori" o ad esercitatori, bensì a professori ordinari ed associati, come si fa in tutte le università del mondo.  Professori ordinari e associati italiani (o stranieri se hanno i necessari titoli) capaci di fare sia ricerca che didattica nel campo dell'assimilazione culturale delle lingue in quanto vive.

 

La partita è ancora aperta.  E ritengo che la si possa vincere, nonostante una lunga storia di riforme naufragate.  Infatti, sono ancora in fase di attuazione tre riforme fondamentali del settore lingue i cui esiti non sembrano ancora scontati (ci tornerò sopra nella seconda parte di questo intervento) e che, se attuate bene, consentiranno ai Centri Linguistici, con gli statuti che attualmente hanno, di svolgere un ruolo davvero qualificante nell'offerta formativa universitaria.  In sostanza:

 

●     se i corsi di laurea in lingue, grazie alle riforme cui accennavo, saranno messi in grado di formare laureati realmente competenti nelle lingue in quanto vive,

 

●     se, di conseguenza, i corsi di lingua nella Scuola saranno tenuti da insegnanti realmente competenti nella loro materia,

 

●     se, dunque, confluiranno nelle facoltà universitarie matricole che già sapranno leggere e conversare in lingua, come avviene negli altri paesi europei,

 

●     allora i Centri Linguistici, qui a Perugia come altrove, potranno dedicarsi a rispondere in modo qualificato ai bisogni specifici di formazione degli studenti provenienti dalle diverse facoltà.

 

Questo ruolo, non di infermeria ma di centro di specializzazione, lo svolgono da tempo molti centri linguistici all'estero.  Ecco due esempi:

 

1. Il Centro Linguistico di Lille, in Francia, riesce ad insegnare i linguaggi settoriali – il linguaggio informatico o giuridico dell'inglese o del tedesco, ad esempio – come routines discorsivi.  Ciò vuol dire che insegna agli studenti non solo come interpretare ma anche come creare discorsi autentici per poter parlare della loro disciplina in modo chiaro e appropriato.  I centri linguistici italiani, invece, sono spesso costretti a limitarsi all'insegnamento fraseologico dei linguaggi settoriali: gli studenti imparano locuzioni e termini tecnici in lingua che poi utilizzeranno in incomprensibili periodi ricalcati su modelli italiani, quando dovranno scrivere un saggio scientifico o discutere una perizia.  Ma non c'è altra scelta: durante gli anni scolastici i giovani italiani non hanno acquisito le necessarie pre-competenze testuali e conversazionali per poter seguire un corso breve di perfezionamento. 

 

2. Il Centro Linguistico di Bristol, in Inghilterra, riesce ad insegnare anche le macro-competenze settoriali: ad esempio, come fare una presentazione in lingua ad un gruppo di lavoro, come fare ricerca in lingua usando Internet, come gestire telefonate in lingua, come affrontare in lingua un colloquio per una borsa di studio o per un posto di lavoro, ecc.  In Italia, invece, non si riesce ad insegnare queste macro-competenze alla generalità degli studenti. Infatti, è relativamente limitato il monte ore che lo studente medio – proveniente da una facoltà non linguistica – riesce a dedicare ai corsi presso un centro linguistico, nell'arco della sua carriera universitaria.  Quelle ore, poi, sono assorbite quasi completamente in corsi per sistemare le carenze di base e, sul piano psicologico, per far superare il rifiuto inconscio verso le lingue straniere che lo studente ha acquisito a scuola.

 

Se una facoltà di medicina formasse male i medici ospedalieri, chiaramente la risposta giusta non sarebbe quella di costruire infermerie accanto agli ospedali per riabilitare i malati di questi medici maldestri.  La risposta giusta sarebbe quella di riformare davvero il percorso di studio nelle facoltà di medicina.  Concludo, dunque, questa prima parte del mio intervento augurando molto successo al nascente Centro Linguistico di Perugia.  E proprio perché ciò avvenga, augurando anche che la comunità accademica nel suo insieme accetti di esaminare complessivamente il problema dell'insegnamento delle lingue all'università, di cui la necessità di costituire il Centro Linguistico è solo la spia. 

 

E' chiaro che il problema non è perugino, ma nazionale.  Anzi, bisogna dare al corso di laurea in lingue di Perugia il credito d'essere stato tra i primi ad indicare la strada giusta da seguire per venirne fuori quando qualche anno fa, andando controcorrente, ha creato uno dei primi insegnamenti di lingua inglese separato dall'insegnamento della relativa letteratura.  All'epoca fu eresia: oggi è legge.  Infatti, un recente decreto ha stabilito che tutti i corsi di laurea in lingue in Italia debbano avere cattedre specifiche per ogni idioma insegnato.  Non esisteranno più le cattedre di lingua e letteratura inglese o francese che – non è un segreto per nessuno – nei fatti erano cattedre di sola letteratura, essendo la componente lingua affidata a figure "non docenti" – i lettori – e pertanto inevitabilmente emarginata.

 

C'è dunque un precedente che fa ben sperare a Perugia, nonché una nuova legislazione nazionale su cui appoggiarsi.  Ma i margini di manovra rimangono comunque stretti: le scelte dei corsi di laurea in lingue sono, ad esempio, necessariamente condizionate dalle esigenze dell'intero settore umanistico.  Ecco perché è indispensabile che tutta la comunità accademica perugina si unisca per aiutare il corso di laurea in lingue a realizzare bene le riforme che il paese da tempo chiede.  Se si riuscisse a riformare autenticamente il corso di laurea in lingue, il nuovo Centro Linguistico potrebbe realizzare appieno la sua vocazione precipua: quella di insegnare ad usare con alta competenza – nelle lingue straniere più richieste – il linguaggio dei diversi settori disciplinari.

 

 

2.

 

Alle considerazioni che precedono si potrebbero fare tre obiezioni.  La prima si riferisce alla già accennata suddivisione delle cattedre di lingua e letteratura straniera in una cattedra di lingua e una di letteratura.  Con questa riforma, che procede lentamente perché costosissima, si ipotizza che il problema della competenza dei laureati in lingue dovrebbe essere risolto – almeno in un prossimo futuro.  La seconda obiezione riguarda la riforma dei curricula, tuttora in corso: l'introduzione del sistema dei moduli e l'eliminazione della titolarità degli insegnamenti consente alle facoltà di lingue di rinnovare la propria offerta didattica.  Pare che già alcune facoltà abbiano messo, nei propri programmi, insegnamenti che si avvicinano al concetto di lingua viva.  La terza obiezione ha a che fare con la recente istituzione delle Scuole Superiori di Insegnamento Secondario, le SSIS.  Dal momento che queste scuole sono obbligatorie per chi vuole insegnare nella Scuola, entro breve tutti gli insegnanti avranno una specializzazione pedagogico-disciplinare. 

 

Con queste riforme la soluzione è a portata di mano, dunque?  L'insieme di questi provvedimenti porrà fine all'attuale carenza linguistica delle matricole?  I Centri Linguistici, in un prossimo futuro, potranno quindi offrire i servizi più qualificati appena descritti?

 

Cominciamo con la terza obiezione: da qualche anno vengono istituite in tutta l'Italia le SSIS, ossia le Scuole Superiori di Insegnamento Secondario.  Garantiscono realmente un'adeguata preparazione a chi insegnerà una lingua straniera nella Scuola?

 

Senza un'autentica riforma dei corsi di laurea in lingua, la risposta sarà negativa.  Le SSIS, infatti, sono state concepite per fornire ai laureati nelle varie discipline, tra cui lingue, soprattutto una corretta impostazione pedagogica; cioè danno per scontato che gli specializzandi abbiano già un'adeguata conoscenza della loro materia – conoscenza forse da approfondire, ma comunque già solida.  Per quanto riguarda chi deve insegnare le lingue, però, questa supposizione non regge – proprio per via dell'emarginazione, nelle facoltà italiane, dell'insegnamento delle lingue in quanto vive.

 

E' vero che gli statuti delle SSIS prevedono anche approfondimenti nelle materie disciplinari già studiate all'università ed è su questo terreno che effettivamente la partita è ancora tutta da giocare.  Sarebbe possibile introdurre nei programmi delle SSIS insegnamenti di lingua viva e delle discipline concomitanti sotto l'etichetta delle linguistiche areali, a patto che, nel contempo, venga dato maggiore spazio alle linguistiche areali nei programmi.  Il problema è dunque politico.  Chi deciderà quali approfondimenti dare e con quale peso?  Ad esempio, è ovvio che se una SSIS fa capo ad una facoltà universitaria di lingue non ancora riformata, ci sarà il rischio che il curriculum della SSIS riporti l'impronta disciplinare tradizionale di questa facoltà.  Ma chi può pretendere di giudicare se una facoltà è o non è "autenticamente" riformata?  Non c'è un organismo ufficiale di controllo della fondatezza delle scelte dottrinali, come per la magistratura.  Ecco perché, in definitiva, le SSIS rappresentano non tanto una risposta quanto la promessa di una risposta che, per realizzarsi, richiede l'interessamento di tutta la comunità accademica.  E' l'idea base di questo intervento, infatti, che il successo di un Centro Linguistico richieda l'interessamento dell'intera comunità accademica alla questione "lingua" nel suo complesso – comprendendo, quindi, anche le scuole di specializzazione.

 

Aggiungo un'ultima osservazione.  Anche se le SSIS fossero impostate come si è appena detto, non basterebbe.  Occorrerebbe pur sempre che nel contempo i corsi di laurea fossero riformati autenticamente.  Secondo la mia esperienza e quella di moltissimi colleghi, infatti, non è facile far acquisire la nozione di "interiorizzazione culturale" agli specializzandi della SSIS, perché anche loro sono stati abituati per anni alla tradizionale analisi formale delle lingue come sistemi.  Le difficoltà aumentano se gli specializzandi hanno studiato quasi esclusivamente, come campioni di linguaggio, testi scritti non spontanei – il caso di tutti i laureati dell'indirizzo letterario.  Studenti formati secondo questa tradizione acquisiscono una forma mentis da filologo delle lingue morte, di grande valore culturale indubbiamente, ma non una forma mentis da etnografo, cioè quella che serve per saper interiorizzare le lingue vive.  Ed è arduo, in seguito, cambiare quest'abitudine mentale.  Naturalmente, la forma mentis filologica e la forma mentis etnografica possono coesistere benissimo nella stessa persona: basta scorrere le pagine di un illustre filologo come Antonino Pagliaro per accorgersi che il testo antico può essere visto contemporaneamente come indizio e come espressione d'una cultura non statica ma in movimento, aperta all'indagine sperimentale (Pagliaro, 1969).  Ma il tipico laureato in lingue non ha acquisito una visione di questa ampiezza dello studio filologico (o linguistico-descrittivo).  E' ovvio, dunque, che non può bastare un singolo modulo di linguistica areale – condotto alla SSIS come lingua viva – perché quel tipico laureato cambi ottica.  Che, ad un tratto, egli cominci a vedere le regole grammaticali di una lingua straniera non come leggi fisse ma come ipotesi da appurare etnograficamente.  Che egli cominci a vedere una conversazione in lingua non come battute di un copione bensì come la co-costruzione di una Weltanschauung condivisa – un happening teatrale semmai.  E via di questo passo.

 

Queste considerazioni spiegano perché il successo del nuovo Centro Linguistico dell'Università di Perugia dipenda anche dalla qualità della formazione data dalla SSIS e dal corso di laurea in lingue: il sistema è un tutt'uno.

 

Passiamo ora alla seconda obiezione.  E' in atto, si dice, una riforma curricolare dei corsi di laurea in lingue provocata dall'eliminazione della titolarità degli insegnamenti e dall'introduzione dei moduli.  Ma questa riforma consentirà davvero alle facoltà e ai corsi di laurea in lingue di rinnovare e diversificare la loro offerta?

 

Forse no.  Posso citare – a sostegno di questo pessimismo – un precedente storico.  Anche la riforma dei curricula di lingue realizzata all'inizio degli anni '80 doveva diversificare l'offerta didattica.  All'epoca dominava il curriculum filologico-letterario; la riforma aggiunse un nuovo curriculum denominato storico-culturale, per formare all'interpretazione di testi non-letterari.  Aggiunse anche un curriculum linguistico-glottodidattico per formare allo studio formale delle lingue e al loro insegnamento.  Infine, aggiunse un curriculum linguistico-antropologico per formare allo studio dell'interazione orale in lingua.  Qual è stato il risultato di questa riforma dopo vent'anni?  Dal 1980 al 2000 l'offerta didattica dei Corsi di Laurea in Lingue è rimasta sostanzialmente invariata – sempre d'impronta filologico-letteraria – esattamente come prima della riforma.  Di fatto, in questi anni non sono nate nuove cattedre per i curricula storico-culturale o antropologico e, nella maggior parte delle università, si sono create poche cattedre per il curriculum linguistico-glottodidattico.  Ma nello stesso periodo il numero delle cattedre filologico-letterarie è raddoppiato.  Senza cattedre diversificate, non è stato possibile offrire agli studenti curricula realmente diversificati.  I nuovi curriculum c'erano, ma in larga misura soltanto sulla carta.

 

Ecco perché l'attuale riforma dei corsi di laurea in lingue dev'essere seguita attentamente.  L'abolizione della titolarità dell'insegnamento promette molto, ma l'esperienza dimostra che bisogna vigilare perché tale promessa venga mantenuta.  A chi spetta il compito di vigilanza?  La risposta è semplice: nell'era della globalizzazione spetta a tutta la comunità accademica, perché a tutti interessa che l'Italia abbia un sistema di formazione in lingue pari alle nuove esigenze.

 

Infine, contando alla rovescia, arriviamo alla prima obiezione: essa riguarda la separazione in due delle cattedre di lingua e di letteratura straniera.  Basterà dunque la creazione di autonome cattedre per consentire, finalmente, lo svolgimento degli insegnamenti di lingua da parte di professori ufficiali, anziché da parte di figure che non hanno lo status accademico di docente (lettori, esercitatori, esperti), come è avvenuto fino ad oggi?

 

Non necessariamente.  Il rischio dello svuotamento di questa riforma, per chi conosce il meccanismo di reclutamento concorsuale all'università, è fin troppo ovvio: le nuove cattedre di Lingua Straniera potrebbero essere assegnate – in base alla normativa vigente – a studiosi formatisi principalmente come letterati o come linguisti descrittivi, studiosi di indubbio valore accademico ma non nel campo specifico dello studio e dell'interiorizzazione delle lingue in quanto vive.  Del resto, ciò è già avvenuto.  Se la tendenza dovesse generalizzarsi, lo Stato spenderebbe l'equivalente di migliaia di miliardi di lire per creare centinaia di nuove cattedre di Lingua, il tutto per duplicare l'attuale offerta didattica – proprio l'offerta che si voleva riformare.

 

Si sente parlare, in alcuni Facoltà di lingue, di un escamotage per poter garantire agli studenti vere e proprie lezioni di lingua viva, pur nominando alle nuove cattedre di lingue "letterati" e "linguisti descrittivi".  La soluzione consisterebbe nell'obbligare gli studenti a seguire al Centro Linguistico corsi di "lingua parlata" tenuti dai lettori. 

 

Considero questa soluzione, appunto, un escamotage e inoltre un escamotage estremamente nocivo, sia per gli studenti di lingue – i futuri insegnanti nella scuola – sia, di conseguenza, per le future leve di matricole di tutte le facoltà.  Perché due sono le ipotesi:

 

●     o i corsi tenuti dai lettori nei Centri Linguistici saranno solo esercitazioni spicciole e quindi non costituiranno vere e proprie lezioni di lingua viva (quindi non prepareranno gli studenti di lingue a fare i futuri insegnanti, traduttori, mediatori, negoziatori, ecc.);

●     o questi corsi saranno insegnamenti veri e propri di lingua viva ma in tal caso daranno inevitabilmente luogo ai problemi giudiziari che l'università affronta da anni, anche in sede internazionale. (Lo spostamento dei lettori in un Centro Linguistico non cambierà la sostanza della questione.)  Mi riferisco alle vertenze promosse dai lettori, non contro il mancato riconoscimento della loro funzione docente (i tribunali non possono ordinare assunzioni ope legis ed è giusto che sia così), ma contro il mancato pagamento del corrispettivo associato alla loro funzione docente.  Si tratta di vertenze da evitare assolutamente perché, anche quando le vincono, i lettori continuano ad essere emarginati nelle facoltà (non possono parlare d'ufficio o votare nei consigli, non possono attingere a fondi di ricerca, ecc.) con una ricaduta sulla didattica inevitabilmente negativa.  In altre parole, le università finiscono col dover pagare un docente intero per avere un docente dimezzato. 

 

Ma più in generale, la proposta di dividere i compiti in due – ai professori l'insegnamento  descrittivo delle lingue, ai lettori l'insegnamento vivo delle lingue – è un controsenso didattico ed accademico.  Per rendersene conto, basta immaginare l'assurdità di una facoltà di architettura con posti di professore per chi insegna storia dell'architettura o teoria dei sistemi e posti di esercitatore per chi insegna disegno, urbanistica, calcolo e statica, insomma le cosiddette materie tecniche.  Oppure un corso di laurea in archeologia con posti di professore per chi insegna la storia degli scavi e posti di esercitatore per chi insegna agli studenti come scavare.  Sarebbe assurdo in quanto, per cominciare con l'ultimo esempio, è proprio nel come scavi che getti le basi per le conclusioni a cui potrai pervenire; pertanto sono i professori ordinari ed associati di archeologia a portare gli studenti sul campo e a dirigere i loro lavori.  Nel caso dell'architettura, è proprio nel saper creare un tracciato che corrisponda ai bisogni di spazio e di movimento di una determinata utenza che sta la funzione dell'architetto; perciò sono i professori ordinari ed associati ad insegnare disegno e statica.  Stesso discorso per quanto riguarda l'apprendimento delle lingue straniere: è come scavi nelle parole del tuo interlocutore straniero che determina se capirai o meno dove lui vuole realmente parare; è come costruisci e dici frasi in lingua che determina se riuscirai o meno a produrre su di lui gli effetti che desideri.  Non è concepibile, dunque, lasciare questi delicati insegnamenti ad esercitatori, isolati poi in un centro senza legami organici con gli altri insegnamenti (antropologici, etnografici, psicolinguistici, filosofici) che completano una corretta formazione nelle lingue in quanto vive.

 

A rifletterci bene, l'utilizzazione dei Centri Linguistici per consumare – attraverso la separazione fisica – la frattura tra chi fa "corsi" e chi fa "esercitazioni" nel settore lingue, non fa altro che accentuare l'insoddisfacente situazione che vigeva prima della separazione delle cattedre di lingua e letteratura straniera.  Con il nuovo sistema, i laureati in lingue avranno un bagaglio in linguistica descrittiva al posto del bagaglio in filologia che avevano con il vecchio sistema; ma continueranno a non sapere le lingue come forma mentis.  I lettori avranno a disposizione modernissimi mezzi tecnologici al posto della sola lavagna (e non sempre del gesso) di prima; ma continueranno ad avere la motivazione ad innovare di chi debba lavorare senza reali prospettive di carriera.  Per riprendere la celebre formula di Tancredi ne Il Gattopardo, si sarà cambiato tutto affinché tutto rimanga com'era.

 

A chi destinare, allora, le nuove cattedre di Lingua, se non a "linguisti descrittivi" o a "letterati con qualche interesse linguistico"?  Per rispondere basta osservare il comportamento delle università all'estero che insegnano l'italiano come lingua straniera.  Nella quasi totalità dei casi (qualche eccezione naturalmente esiste) non ci sono preferenze per docenti italiani ma non ci sono nemmeno intese per escluderli a priori: le cattedre di lingua possono essere assegnate a chiunque abbia la capacità di traghettare gli studenti nei gironi sempre più stretti che portano al cuore dell'attività espressiva.[Cliccare qui> 4]  Nei fatti, le cattedre sono assegnate indifferentemente sia a cittadini italiani sia a cittadini del posto, con il solo denominatore comune che tutti hanno comprovate capacità nell'insegnare l'espressione in lingua (che sottintende la descrizione della lingua ma che va ben oltre) di discorsi spontanei, co-creati e culturalmente mirati

 

Dove si possono trovare giovani docenti con queste capacità in Italia da reclutare per i nuovi posti?  In verità, ci sono tantissimi giovani talenti che insegnano nelle scuole, talenti che rischiano di essere esclusi dall'insegnamento universitario se le facoltà selezionano, per il dottorato o per i posti di ricercatore, solo chi abbia titoli linguistici tradizionali o titoli letterari.  Ci sono ottimi docenti italiani nei centri culturali italiani all'estero, i quali hanno portato avanti, accanto al loro lavoro d'insegnamento dell'italiano come lingua viva, approfondite ricerche sulla lingua del posto.  Ci sono ricercatori nelle scienze della comunicazione, nelle scienze antropologiche e al DAMS che, opportunamente incentivati, potrebbero fare il passaggio.  Ci sono anche, nelle stesse facoltà di lingue, linguisti e letterati con lunghi percorsi di ricerca e di didattica incentrati sulla lingua viva in quanto espressione spontanea.  Inoltre, ci sono diversi lettori di madrelingua straniera con i titoli necessari, reclutati per svolgere esercitazioni subalterne ma che poi, in mancanza di insegnamenti ufficiali di lingua viva, hanno trasformato quelle esercitazioni in insegnamenti più qualificati.

 

Certo, in un primo tempo bisognerà avere il coraggio di lasciare vuoti quei concorsi in cui non si presenteranno candidati con i titoli necessari.  Mi rendo conto che, come conseguenza, si ritarderà l'attuazione della riforma; inoltre, perdureranno i problemi affrontati quest'anno nel gestire gli esami dei settori L-LIN senza il personale adeguato.  Ma ritardare la riforma è meglio che seppellirla procedendo a nominare chi non ha titoli che attestano un impegno qualificato pluriennale nella ricerca e nella didattica delle lingue in quanto vive.



 In conclusione, per garantire che i corsi di laurea in lingua compiano una riforma sostanziale e non puramente formale, è necessario vigilare su tre fronti: l'assegnazione delle nuove cattedre di Lingua, la creazione dei nuovi moduli e curricula, la definizione delle materie disciplinari da insegnare nelle Scuole Superiori d'Istruzione Secondaria. 



 A far bene i conti, le facoltà scientifiche e umanistiche avrebbero interesse ad investire tempo ed energia per seguire l'andamento di queste tre riforme nel settore lingue.  Infatti, se le riforme venissero realizzate correttamente e se il Centro Linguistico potesse dunque essere non una infermeria bensì un centro di specializzazione, queste facoltà avrebbero un problema in meno da risolvere.  Il problema è quello posto attualmente dalla necessità di concedere crediti sufficienti per la formazione linguistica dei loro studenti, senza nulla togliere alla loro formazione disciplinare.  Al momento attuale, visto il livello medio delle conoscenze linguistiche delle matricole, l'ipotesi di assegnare dai 4 ai 10 crediti per i corsi del Centro Linguistico è del tutto irrealistica – ci vorrebbero dai 16 ai 24 crediti a seconda della facoltà (ad esempio, 16 per scienze naturali, 24 per scienze politiche).  Ma quei 4 o 10 crediti potrebbero essere sufficienti se i Centri Linguistici, grazie alle riforme dei corsi di laurea in lingue, potessero limitarsi ad offrire brevi corsi specialistici mirati a matricole già linguisticamente preparate.

 

Concludo questa parte dell'intervento ricordando come il titolo di questo convegno – la ridefinizione del ruolo linguistico del CLA nella prospettiva dei nuovi ordinamenti didattici – sottolinea egregiamente il rapporto che esiste tra le varie riforme in atto viste complessivamente.  Questo titolo costituisce di per sé un invito alla comunità universitaria tutta intera a seguire da vicino l'attuazione dei nuovi provvedimenti nel settore lingue.

 

 

3.

 

A questo punto abbiamo gettato tutte le premesse necessarie per poter rispondere alla questione posta dal titolo di questo intervento:

 

Quale ruolo deve svolgere il Centro Linguistico rispetto alle diverse categorie di utenza, in particolare rispetto agli studenti delle facoltà scientifiche e a quelli delle facoltà umanistiche? 

 

A mio parere bisogna innanzitutto distinguere tre categorie di possibili utenti, non solamente due.  Bisogna poi precisare meglio in che cosa consistono i termini "studenti delle facoltà scientifiche" e "studenti delle facoltà umanistiche". 

 

Cominciamo con il primo punto, il più spinoso.  Nell'enunciarlo, mi rendo conto di esprimere un parere in contrasto sia con il progetto organizzativo del nascente Centro Linguistico di Perugia, sia con la prassi consolidata di molti centri linguistici in Italia.

 

Dicevo, dunque, che ritegno necessario distinguere tre categorie di possibili utenti.  Due sono le categorie di studenti da accogliere senz'alcun dubbio nei Centri Linguistici, vale a dire gli studenti delle facoltà scientifiche e quelli delle facoltà umanistiche.  La terza categoria è costituita dagli studenti del corso di laurea in lingue ed è una categoria che, a mio parere, va esclusa dalla frequentazione del Centro.

 

Nella prima parte di questo intervento abbiamo visto, infatti, che i bisogni linguistici di uno studente di lingue sono radicalmente diversi da quelli degli altri studenti dell'area umanistica e degli studenti dell'area scientifica.  Agli studenti di lingue serve una formazione comunicativo-culturale – basata sulla trasformazione del sé descritta prima – che va ben al di là di ciò che possa offrire un semplice centro di servizi, il cui ambito di ricerca sarà necessariamente limitato per via dell'impossibilità statutaria di avere professori e ricercatori stabilmente inquadrati.  La formazione degli studenti di lingue, dunque, va condotta necessariamente all'interno di un corso di laurea, sia per poter attingere a fondi di ricerca come qualsiasi altro settore accademico, sia per trovare agganci con i docenti delle materie complementari (antropologia culturale, etnografia, ermeneutica, ecc.), i quali difficilmente confluirebbero in un consorzio di ricerca facente capo ad un Centro Linguistico.

 

Al contrario, per risolvere i bisogni linguistici degli studenti delle aree scientifiche e umanistiche, il Centro Linguistico rappresenta senz'altro la soluzione più razionale a patto che vengano riformate autenticamente i corsi di laurea in lingue.  I bisogni di queste due categorie di utenza, infatti, sono di tipo comunicativo e non comunicativo-culturale – bisogni che possono essere facilmente soddisfatti in un Centro di servizi tramite corsi specialistici di breve durata e di pochi crediti, messi a punto da chi insegna nel Centro in collaborazione con ricercatori e docenti "prestati" di volta in volta da un consorzio di dipartimenti (scienze linguistiche, scienze pedagogiche, psicologia, ecc.) interessati allo studio empirico di alcuni fenomeni linguistici e psicolinguistici circoscritti quali l'uso dei linguaggi settoriali ed dei generi espositivi, l'apprendimento della lettura in lingua, l'interlingua e le interferenze L1/L2 e via discorrendo.

 

In sostanza, gli studenti di scienze e gli studenti di storia che hanno bisogno di sapere – per dare un esempio – l'inglese o il tedesco per fare ricerche bibliografiche, possono seguire corsi in cui gli apparati bibliografici in queste due lingue vengono insegnati come sistemi puramente formali.  Si tratta di una visione superficiale di ciò che è una lingua ma del tutto funzionale, dati i limitati bisogni dell'utenza.  Ecco perché condivido i discorsi fatti da Maurizio Gotti oggi e da Paola Evangelisti ieri, se parliamo di queste due categorie di utenza e non degli studenti di lingue.

 

Naturalmente una lingua non è solo un insieme di forme fonologiche e lessico-grammaticali abbinate ad un insieme di usanze pragmatiche.  Una lingua è molto di più, come abbiamo ricordato nella prima e nella seconda parte di questo intervento.  Tuttavia, allo studente di scienze o allo studente di storia, scoprire quel "di più" generalmente non serve e raramente interessa.

 

Per lo studente di lingue, invece, è proprio il contrario: si è iscritto al corso di laurea in lingue proprio per scoprire quel "di più".  Non solo, ma ha bisogno di saperlo cogliere, in quanto è proprio questa capacità che giustificherà il suo futuro ruolo come mediatore tra lingue e culture.  Anzi, può risultare dannoso e demotivante per questo studente trattare le lingue puramente come codici da analizzare (ne ho già parlato a proposito degli specializzandi delle SSIS). 

 

Si potrebbe obiettare che ci sono, però, anche a Lingue matricole che hanno un basso livello di preparazione linguistica iniziale.  Non sarebbe il caso di concedere almeno a questi studenti di lingua la possibilità di frequentare il Centro Linguistico per colmare il proprio debito formativo?

 

Rispondo di no per il motivo già ribadito più volte in quest'intervento: un programma che insegna una lingua come se fosse soltanto un sistema formale da usare per decodificare messaggi -- l'impostazione inevitabilmente adottata nei Centri Linguistici per venir incontro ai bisogni degli studenti di scienze -- è un programma nocivo a qualsiasi livello per chi intende laurearsi in lingue.  Per questa utenza occorrono insegnamenti ad hoc tenuti presso un corso di laurea.

 

Sarò eccessivo, forse, ma ritengo che l'accesso al Centro Linguistico dovrebbe essere addirittura vietato per statuto agli studenti di lingue.  Un divieto del genere, infatti, sarebbe a tutto vantaggio della qualità dell'insegnamento impartito ai futuri laureati in lingue.  Tre sono i motivi:

 

1. anche se fossero avviati insegnamenti ad hoc per gli studenti di lingue presso un Centro Linguistico, essi tenderebbero col tempo ad appiattirsi sui corsi più seguiti, ossia sui corsi puramente "meccanici" per le facoltà scientifiche.  I motivi sono di natura squisitamente umana: la demotivazione di chi deve portare avanti un'innovazione didattica così impegnativa in una situazione di obiettivo isolamento e di assenza totale di sbocchi di carriera; la tendenza di voler "contenere le spese" riciclando materiali usati nei corsi più seguiti (quelli "meccanici"), ecc.;

 

2. se l'accesso al Centro fosse vietato agli studenti di lingue, il Corso di Laurea in Lingue sarebbe incentivato a ricercare una formazione disciplinarmente più mirata per i suoi studenti sin dai primi livelli, ossia sin dalla fase più critica per l'acquisizione di ciò che abbiamo chiamato la forma mentis da etnografo;

 

3. infine, trasferire al Centro Linguistico i corsi per gli studenti di lingue, manderebbe un brutto messaggio a questi studenti, molti dei quali saranno futuri insegnanti nella Scuola.  Il messaggio sarebbe: "Gli insegnamenti della linguistica descrittiva e della letteratura straniera sono cose serie perché tenute da professori ufficiali all'interno di una facoltà universitaria; mentre l'insegnamento delle lingue in quanto vive è roba da centro di servizio, da affidare a chi non riveste nemmeno la qualifica di professore". 

 

Esaminiamo ora i termini "studenti delle facoltà scientifiche" e "studenti delle facoltà umanistiche": sono termini di comodo che andrebbero meglio precisati, se vogliamo definire la tipologia degli insegnamenti che il Centro Linguistico, nella sua veste attuale, può offrire.

 

Quando parliamo dello "studente di scienze" indichiamo qualsiasi studente – delle facoltà scientifiche e non – che abbia bisogno di sapere le lingue come codici per la trasmissione di informazioni convenzionali – o, meglio, di informazioni che sembrano in prima istanza puramente convenzionali, cioè senza implicazioni pragmatiche o culturali oltre a quelle che queste informazioni hanno quando vengono espresse in qualsiasi lingua. 

 

Perciò il termine "studente di scienze" ingloba non solo lo studente di medicina, di fisica o di informatica, ma anche lo studente di economia o di archeologia o di storia dell'arte che abbia necessità di sapere una determinata lingua per leggere articoli puramente scientifici.  In linea di massima, questo tipo di utente non deve saper usare la lingua per interagire spontaneamente ed autenticamente in situazioni culturalmente dense.  Per quanto riguarda il parlato, egli ha tutt'al più bisogno di saper tirare fuori dal suo repertorio di routines in lingua quanto basta per ordinare un pasto, riservare una stanza d'albergo, fare i convenevoli con gli altri partecipanti di un congresso, ecc.  Non deve integrarsi nella cultura di un altro paese e nemmeno risultare particolarmente convincente quando ordina un pasto o saluta i suoi colleghi stranieri.  Questo tipo di utente, lo "studente di scienze", potrà un domani avvalersi di un traduttore o di un interprete quando, in una lettera o in un'intervista, egli vorrà esprimere discorsi ricchi di sfumature.

 

Indubbiamente, non esistono discorsi perfettamente convenzionali, né in uno scritto scientifico, né in convenevoli del tipo "Hello" o "Hi" scambiati con un interlocutore anglofono.  Paola Evangelisti e Carla Vergaro hanno dimostrato che anche un testo scientifico o una lettera commerciale contengono valenze pragmatiche ed esistenziali culturalmente marcate.  Non cogliere queste valenze è effettivamente una perdita di informazioni.  Tuttavia, dal momento che gli studenti di scienze non hanno né il tempo né la voglia d'imparare appieno le lingue sul piano culturale, possono limitare il proprio apprendimento alla comprensione dei soli contenuti pragmaticamente e culturalmente affini alle loro personali abitudini discorsive in italiano, in quanto specialisti in un particolare dominio scientifico. 

 

La sede naturale per colmare i bisogni linguistici dello studente di scienze è dunque il Centro Linguistico.  Infatti, si tratta di bisogni che necessitano di corsi brevi ed intensivi, incentrati su competenze ricettive più che produttive, come la lettura rapida (skimming, scanning) o la tecnica per prendere appunti durante le conferenze.  Questa categoria di studenti, peraltro, non ha bisogno di grandi capacità conversazionali in lingua; ciò che avrà già imparato a scuola (sempre nell'ipotesi che i corsi di laurea in lingue vengano riformati) dovrebbe bastare.



La seconda categoria di utenza è costituita dagli studenti provenienti dalle facoltà umanistiche.  Uso questo termine, come quello precedente, per pura comodità.  Infatti, abbiamo appena visto che uno studente umanista – poniamo di storia dell'arte – potrebbe benissimo voler limitare la sua padronanza dell'inglese o del tedesco a quegli usi rappresentativi convenzionali che sono tipici degli studenti di scienza: saper leggere schede bibliografiche in lingua, saper prendere appunti "tecnici" in lingua, e via discorrendo.  Questo tipo di studente umanista è però un'eccezione. 

 

Normalmente ciò che caratterizza gli studenti delle facoltà umanistiche – a cui possiamo aggiungere anche le facoltà economico-politiche e giuridiche – è la necessità di sapere le lingue per agire sulle persone.  Saper agire significa, ad esempio, riuscire a fare una presentazione convincente in inglese per un gruppo di lavoro internazionale, oppure risultare affabile in francese per ottenere, al telefono, un'informazione desiderata.  Si tratta di macro-competenze basate sulla gestione di discourse routines pragmaticamente connotati.  In una parola, lo studente umanista deve saper usare la lingua straniera non solo per rappresentare le sue idee, come lo studente di scienza, ma anche per sollecitare determinati comportamenti, tramite strategie pragmaticamente appropriate e, nei casi più ricorrenti, culturalmente universali. 

 

I corsi rivolti a questa seconda categoria d'utenza saranno perciò più lunghi e più "pesanti" in termini di crediti – da 8 a 10 di regola.  Ma per lo studente di giurisprudenza o di scienze della comunicazione, imparare a fare una presentazione convincente in inglese o a presentarsi in modo amabile in francese fa parte della propria formazione disciplinare quale futuro avvocato o quale futuro addetto stampa.  Cioè nell'imparare a comunicare con destrezza in inglese, lo studente impara sia l'inglese sia cosa significa comunicare con destrezza in un contesto interculturale.  Dunque si può giustificare senz'altro il maggiore "peso" in termini di crediti, in quanto corsi di questo tipo vanno visti come parte integrante dell'iter formativo specifico di un corso di laurea "umanistica".

 

Il Centro, quindi, dovrebbe disporre di materiali diversificati in almeno due filoni, quelli appena indicati con le etichette "scientifico" e "umanistico" ma che andrebbero meglio designati con le etichette "discorsi tecnici" e "discorsi intenzionali". 

 

Ad esempio, per insegnare la lettura rapida in inglese il Centro dovrebbe poter offrire:

 

 

Questo modo di procedere prescinde dunque dal contenuto tematico dei testi orali o scritti.  Infatti, il Centro si prefigge di insegnare competenze in lingua (come leggere velocemente, prendere appunti, fare presentazioni), non vocaboli specialistici che gli studenti non hanno difficoltà ad imparare per conto proprio.  Perciò possono confluire nello stesso corso – poniamo un corso su "come fare presentazioni in inglese (discorsi tecnici)" – sia studenti di biologia che studenti di archeologia; il contenuto tematico dei lucidi usati per le presentazioni è d'importanza secondaria.  Per lo stesso motivo, possono seguire il medesimo corso su "come prendere appunti in spagnolo (discorsi intenzionali)" sia studenti di scienze della comunicazione che studenti di scienze dell'ambiente, i quali vogliono poter seguire (in TV satellitare) i dibatti in Spagna sulla relativa legislazione del settore.

 

La ripartizione binaria dei materiali e dei corsi ha il vantaggio di limitare la duplicazione di stampati e la proliferazione di corsi.  Inoltre, l'insegnamento stesso risulta meglio focalizzato sulle funzioni comunicative.  Infine consente allo studente di personalizzare il suo percorso formativo.  Poniamo, ad esempio, che la facoltà dello studente X gli concede 8 crediti da spendere al Centro per lezioni d'inglese.  Questo studente, in base alle proprie inclinazioni ed aspirazioni future, può distribuire gli 8 crediti tra i vari moduli di lingua inglese offerti dal Centro (come prendere appunti, come scrivere un articolo scientifico, come fare una presentazione, come interpretare il linguaggio non verbale dell'interlocutore...) scegliendo liberamente tra l'opzione "discorsi tecnici" o "discorsi intenzionali".  I moduli basati sui discorsi tecnici generalmente richiedono meno tempo, meno crediti e meno impegno.

 

Sarebbe opportuno avviare nei Centri anche appositi corsi in lingua italiana per tutti quegli studenti che non conoscono le caratteristiche dei genres espressivi che dovranno poi padroneggiare in lingua.  Ciò consentirebbe successivamente al docente di lingue di andare più spedito nelle sue lezioni e di limitare il ricorso all'italiano per le spiegazioni metalinguistiche.  Ad esempio, prima di ammettere uno studente ad un corso di lettura (o di redazione) di articoli scientifici, il Centro accerterebbe le sue conoscenze pregresse di questo genre in italiano.  L'insufficienza comporterebbe la frequentazione obbligatoria di alcune lezioni in italiano sul genre "articolo scientifico", con esercitazioni pratiche (ma senza crediti, in quanto recupero di un debito formativo).

 

Per quegli studenti delle due categorie che vogliono assimilare una lingua nella sua complessità reale – come fanno gli studenti di lingue – dovrebbe essere prevista la possibilità di frequentare un ampio ventaglio di moduli presso, appunto, il corso di laurea in lingue.  Molte università all'estero prevedono dual degrees, ossia lauree composte per la metà di una disciplina e per la metà di un'altra.  Questa possibilità consente di venir incontro, per esempio, allo studente che s'interessa all'ingegneria informatica ma che non desidera concentrare i propri studi in quella disciplina, preferendo studiare contemporaneamente anche le tecniche della comunicazione, in vista di un futuro lavoro nel campo del marketing o delle public relations nel settore informatico.  Gli statuti di molte università americane consentono a questo studente, per l'appunto, di fare una laurea per metà in ingegneria informatica e per l'altra metà in scienze della comunicazione.  Una simile innovazione potrebbe portare, dunque, studenti di scienze o studenti di economia nelle aule del corso di laurea in lingue.

 

4.

 

Vediamo ora qual è la giustificazione teorica della suddivisione degli utenti, appena illustrata, in tre categorie funzionali.

 

La giustificazione sta nella concettualizzazione dell'atto comunicativo, che ho già sviluppato in altra sede (Boylan 2002) e che vorrei riproporre qui.  Ritengo, infatti, che l'atto comunicativo – dall'ammiccamento all'allocuzione solenne – abbia una funzione tripartita.  Comunichiamo cioè per: 1. rappresentare qualcosa, 2. fare qualcosa e 3. essere qualcosa.

 

Tradizionalmente solo la prima funzione – la rappresentazione – viene trattata dagli studiosi del linguaggio.  Essi hanno elaborato, attraverso i secoli, complessi schemi di analisi (la grammatica, la lessicologia, la fonologia...) per descrivere come rappresentiamo "plasticamente", tramite significanti, i nostri significati (le cui proprietà generali vengono descritte poi con altri schemi di analisi: la semantica, la semiotica...).

 

Da circa un secolo, però, la linguistica si è accorta che la comunicazione serve non solo per rappresentare le cose ma anche per far accadere le cose: accanto alla linguistica è nata la disciplina sorella denominata la pragmatica. 

 

Paragoniamo queste due discipline, per vedere in che cosa consiste la differenza di prospettiva.  Se grido: "Aaaooo, la porta!», un parlante italiano capirà immediatamente che gli sto chiedendo di chiudere una porta che egli ha lasciato aperta – ma non per qualche regola grammaticale.  Non ho usato l'imperativo.  Il mio grido, perciò, non rappresenta formalmente un ordine.  O meglio, se rappresenta un ordine, è in virtù di un altro sistema di regole a cui implicitamente faccio riferimento.  Si tratta delle presupposizioni conversazionali nonché delle regole sociali che definiscono ordini indiretti e modalità di convivenza.  Secondo il primo sistema di regole, se un parlante attira l'attenzione con un tono esclamativo su un determinato oggetto, come una porta, egli vuole far capire che c'è qualcosa da segnalare riguardo all'oggetto. In base al secondo sistema di regole, dal momento che è meritorio rendere un servizio laddove c'è bisogno e, inoltre, dal momento che le porte d'entrata vanno tenute chiuse nella nostra società, allora il richiamare l'attenzione su una porta d'entrata lasciata aperta equivale a chiedere che venga chiusa, senza che ci sia bisogno di usare un verbo all'imperativo.  Cioè, quando grido "Aaaooo, la porta!" non sto costruendo una frase ellittica in cui sottintendo il verbo "chiudere" all'imperativo, ma sto esprimendo due enunciati orali che hanno il valore di due ordini indiretti per via di determinate regole sociali (pragmatiche), non grammaticali.[Cliccare qui> 5]

 

Esistono dunque regole grammaticali, ma esistono anche regole pragmatiche: per sapere una lingua bisogna conoscere entrambi i sistemi.  (Sto usando i termini "regole" e "sistemi" solo per convenzione.)  In quest'ultimo secolo abbiamo imparato, dunque, che una lingua non è soltanto un mezzo per rappresentare idee ma è anche un mezzo per agire sulle persone e sugli eventi (o per far agire le persone e per far compiere determinati eventi).  Evangelisti ha illustrato ieri questo doppio gioco. 

 

Ma un'espressione verbale non è soltanto un mezzo per rappresentare qualcosa e per far fare qualcosa.  E' anche – soprattutto – un mezzo per essere qualcosa.  Infatti, attraverso l'espressione, verbale e non verbale, noi ci esplicitiamo e perciò siamo. Nell'interazione con gli altri ci definiamo esistenzialmente. 

 

Chiaramente non ci definiamo ab ovo: ci definiamo usando i materiali forniti dalla nostra comunità e quindi, nel definirci come individui, ci definiamo anche come membri di una determinata cultura (o, meglio, di un intreccio di culture).  Possiamo dipingerci secondo il nostro ingegno, ma la tavolozza che usiamo viene fornita dalla nostra società ed essa condiziona (colora) qualsiasi risultato raggiungiamo.

 

Bisogna riconoscere che le persone che hanno meglio colto questo terzo aspetto della produzione verbale – il linguaggio come modalità d'essere – non sono stati i linguisti bensì i letterati.  Il critico letterario, attraverso lo studio del linguaggio di un autore e dei suoi personaggi ha da sempre cercato di definire la loro modalità d'essere.  Potremmo addirittura dire che lo scopo di un insegnamento comunicativo-culturale di una lingua viva è quello, appunto, di dare questo taglio "letterario" allo studio e all'assimilazione delle modalità d'interazione quotidiane in una determinata lingua e cultura straniera. 

 

Diamo un esempio concreto per illustrare le tre diverse prospettive, cioè l'uso del linguaggio per 1. rappresentare, 2. agire, 3. essere.  In una discussione con un giapponese, la gestione dei silenzi fa parte di una adeguata competenza comunicativa: non sai parlare il giapponese – o parlare in italiano o in inglese con un giapponese – se non sai anche tacere per cogliere il pensiero altrui (o per contemplare il tuo) e per sentire l'evolversi dei rapporti interpersonali (o la totalità dell'esperienza, per chi segue lo Zen).  Questo saper tacere non è una semplice regola pragmatica, poiché non è legato a specifici atti linguistici; è una modalità d'essere che governa il modo più discreto di porsi verbalmente che caratterizza i giapponesi.  Non si rileva con la pragmatica, dunque, ma neanche con la linguistica.  Infatti, il silenzio come valore che colora un'intera interazione non è un dato pertinente per un linguista; non può essere studiato adeguatamente con gli strumenti della fonologia o della grammatica o della textlinguistik.  Eppure è un attributo del saper parlare bene in giapponese, che va imparato in un corso di lingua impostata in un'ottica comunicativo-culturale.[Cliccare qui> 6]

 

Le tre dimensioni teorizzate sono compresenti in ogni atto comunicativo, come abbiamo già affermato a proposito del dittongo prolungato calante nel richiamo "Aaaooo, la porta!".  Detto perentoriamente da un romano di borgata, il dittongo comunica un'inconfondibile modalità d'essere (che può non corrispondere al modo di essere abituale del parlante – per esempio, il parlante potrebbe essere una persona colta che "fa il borgataro" per scherzo).  Nel contempo il dittongo comunica qualcosa anche all'interno delle altre due dimensioni, quella pragmatica (lo si percepisce come "richiamo") e quella linguistica (lo si percepisce come "fonosimbolo" o "interiezione").  Ecco perché lo studio della lingua viva, quando viene condotto come interiorizzazione consapevole di un nuovo modo di essere, richiede l'apporto di un'intera gamma di insegnamenti complementari, dall'etnometodologia all'ermeneutica.

 

In verità concepire le lingue come veicoli di particolari modi di essere non è nemmeno un'idea nuova.  Ne hanno già parlato Malinowski e Sapir nel Novecento, Humboldt nell'Ottocento, Vico nel Settecento e via discorrendo.  Forse il primo è stato Aristotele, il quale nella Politica sviluppò il concetto di "comunità di discorso" (polis).  Tuttavia questa visione del linguaggio è rimasta sempre ai margini degli studi filologici, glottologi e linguistici "ufficiali".  Ciò che è storicamente prevalso è stata la visione platonica e poi stoica del linguaggio come rappresentazione proposizionale, essenzialmente logico e quindi tautologico, da sottoporre all'analisi formale.  Non solo, ma la visione stoica si è fusa con la pratica del recupero di testi antichi avviato dai già ricordati grammatici alessandrini.  Ciò significa che lo studio sistematico dei fenomeni del linguaggio è stato circoscritto per lungo tempo ai soli dati rilevabili, tramite l'analisi formale, da messaggi scritti perlopiù antichi.  Una visione miope quando si vuole preparare uno studente ad affrontare i fenomeni della comunicazione attraverso l'interazione totale in situazioni in divenire.  Ma è la visione storicamente dominante nella Scuola e nell'Università, concretizzata nel binomio "grammatica" e "letteratura" che da sempre – e ancora oggi in larga misura – nega allo studio delle lingue in quanto vive una sua specificità disciplinare.

 

Precisata la giustificazione teorica per l'impostazione dei corsi suggerita nella terza parte di questo intervento, torniamo dunque al nostro discorso sulle diverse utenze del Centro Linguistico.

 

Abbiamo già detto che la creazione di "filoni" di corsi e di materiali didattici all'interno di un Centro Linguistico richiede inevitabili semplificazioni.  La didattica è – come la politica – l'arte del possibile.  Poste le restrizioni dovute al sistema dei crediti ed alle esigenze delle diverse categorie di utenza, abbiamo proposto che il Centro Linguistico si limiti ad insegnare le lingue nella loro prima dimensione (quella della rappresentazione) agli "studenti di scienza" e agli studenti ad essi assimilabili.  Agli "studenti umanisti" – e giuridico-economico-politici, nonché qualsiasi studente da qualsiasi facoltà che vuole saper "agire" in lingua – vanno invece insegnate le lingue  sia nella loro prima che nella loro seconda dimensione (rappresentazione e azione).  Ricordiamo che il concetto di "dimensione" non implica nessun ordine cronologico o di priorità: agli studenti umanisti le prime due dimensioni della comunicazione vanno insegnate contemporaneamente sin dalla prima lezione.

 

Per gli studenti di lingue, invece, le lezioni vanno svolte tenendo conto di tutte e tre le dimensioni –  in particolare la terza: "comunicare per essere" – e ciò sin dalla prima lezione.  Bisogna cioè abituare questi studenti a concepire la comunicazione linguistica in una situazione interculturale come essenzialmente un ri-relazionarsi tra diverse modalità d'essere.

 

Abbiamo ribadito più volte che queste lezioni vanno svolte non in un Centro Linguistico bensì nella sede in cui vengono impartiti gli insegnamenti complementari con cui esse si intrecciano.  Nulla toglie, però, che questa sede abbia, come un Centro Linguistico, aule attrezzate per gli audiovisivi e per Internet, con banchi mobili per la formazione di gruppi di lavoro.  Anzi, le attrezzature tecnologiche sono in un certo senso essenziali.  Come l'aula migliore per un corso di archeologia sarebbe lo scavo, a cui il docente può supplire in parte con audiovisivi di alta qualità, l'aula migliore per un corso di lingua viva sarebbe il paese straniero, a cui il docente può supplire in parte con un uso oculato di audiovisivi e della telematica.  (In quanto ai cosiddetti laboratori linguistici, gli studenti di lingue non ne hanno affatto bisogno.)  Entrambi questi insegnamenti infatti – l'insegnamento dell'archeologia e l'insegnamento delle lingue vive – costituiscono incontri con l'Altro nella sua specificità materiale non riducibile a noi stessi.  E' pertanto essenziale che più di una traccia di quella specificità materiale sia presente per dare consistenza alle parole.

 

C'è inoltre un ulteriore parallelo fra l'archeologia e l'insegnamento delle lingue vive.  Entrambi questi insegnamenti cercano infatti di inculcare una prassi: come dissotterrare un reperto, come interagire in lingua.  Prassi che è sia una riflessione ermeneutica sull'oggetto, sia un ri-relazionarsi rispetto ad esso.  Entrambe le discipline, dunque, illustrano chiaramente come – tra un sapere "concettuale" fine a se stesso e un banale saper fare "tecnico" – esista una terza via.  Chi sa condurre con criterio uno scavo archeologico o chi sa interagire in lingua in maniera culturalmente convincente, possiede il sapere che Aristotele chiama phronesis (Etica nicomachea, VI).  E' la capacità di ridefinire la propria modalità d'essere, di agire e di rappresentare le cose.

 

 

Conclusioni

 

Tra un anno, tra tre anni, tra cinque anni sapremo se l'università avrà finalmente operato quelle trasformazioni necessarie per assolvere i nuovi compiti formativi nel settore lingue.  E lo sapremo osservando quattro indizi.  Sono indizi che chiunque nella comunità accademica potrà facilmente rilevare – periodicamente – per valutare fino a che punto l'offerta formativa in lingue si è effettivamente rinnovata, sul piano sia locale che nazionale.

 

Primo indizio: esistono corsi di laurea imperniati sull'apprendimento delle lingue in quanto vivePer sincerarsene basta guardare i programmi dei docenti dei settori disciplinari denominati L-LIN.  Se, da uno sguardo all'ordine degli studi, risulta che i programmi di questi docenti mirano a insegnare a descrivere le lingue e a commentarne gli usi (letterari), sarà chiaro che non verranno formati futuri mediatori in lingue.  Vorrà dire che la suddivisione delle cattedre e la creazione di cattedre specifiche di Lingua è stata usata per duplicare l'offerta, aggiungendo nuovi insegnamenti descrittivi e letterari a quelli di prima.

 

Il secondo indizio da osservare è forse l'indizio più chiaro di tutti: esistono ancora lettori o "esperti" di madrelingua straniera, responsabili della formazione degli studenti del corso di laurea in lingue?  Se fra un anno, tre anni o cinque anni esisterà sempre questa legione straniera di non-docenti con compiti di docenza, vorrà dire che l'università avrà deciso di mantenere lo status quo.  Cioè di continuare a reclutare lettori per non dover assegnare le nuove cattedre a chi (italiano o straniero) si è specializzato nell'insegnamento delle lingue in quanto vive.  E' ovvio che in questa malaugurata eventualità il problema linguistico all'università (e nel paese) non sarà stato affatto risolto.  Invece nell'ipotesi migliore, ossia quella di un'autentica riforma del corso di laurea in lingue, cosa diventeranno gli attuali lettori?  Se un lettore ha i necessari titoli scientifici e didattici, potrà concorrere per uno dei nuovi posti di professore di lingua: se non ha i titoli ma ha anni di servizio, andrebbe collocato in un ruolo ad esaurimento.  In entrambi i casi, le categorie di "lettore" e di "esperto linguistico", docenti senza lo status di docente e assunti senza regolare concorso, andrebbero abolite.

 

Il terzo indizio: se fra un anno, tre anni o cinque anni le Scuole di Specializzazione SSIS avranno programmi che, per quanto riguarda la parte disciplinare, risulteranno simili ai programmi dei corsi di laurea in lingue (non autenticamente riformati - vedi i primi due indizi), vorrà dire che l'insegnamento delle lingue a scuola probabilmente non è migliorato e che il Centro Linguistico non potrà contare su un'utenza con una base linguistica già consolidata.

 

Il quarto ed ultimo indizio: se fra un anno, tre anni, cinque anni il Centro Linguistico sarà popolato da figure non docenti -- lettori, borsisti -- capeggiate da un unico professore ufficiale sorretto da pochi amministrativi (la situazione di molti Centri Linguistici oggi), vorrà dire che il Centro non è stato messo in condizione di poter assolvere il compito di formazione specialistica che, invece, dovrebbe caratterizzarlo.  In questo intervento ho parlato soprattutto dell'alta qualificazione da richiedere a chi insegna una lingua in quanto viva nei corsi di laurea in lingue.  Ma una qualificazione ugualmente alta, seppure di diversa natura, la devono avere chi deciderà gli indirizzi didattici di un Centro Linguistico e chi li metterà in pratica.  I materiali didattici acquistati o creati dovranno essere idonei per le due categorie di utenza e per i molteplici genres discorsivi usati nelle varie facoltà.  Inoltre, bisognerà adattare questi materiali per lo studio individuale.  Bisognerà prevedere prove diagnostiche dei più comuni problemi di apprendimento.  Un Centro Linguistico realmente funzionale deve perciò poter attingere in maniera strutturale e permanente ad un pool di docenti provenienti dai Dipartimenti ma facenti capo al Centro, sia per la creazione dei materiali che per la loro utilizzazione in aula.[Cliccare qui> 7]

 

Si tratta di quattro indizi facilmente rilevabili, dunque, che nei prossimi anni indicheranno – a chiunque voglia interessarsi – lo stato di salute di quel grande malato cronico dell'università italiana che è il sistema di formazione in lingue.  Malato a cui faccio i miei migliori auguri di pronta guarigione.

 

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Bibliografia

 

Boylan P. (2002), "Language as Representation, as Agency, as Being".  In: S. Cormeraie et al. (eds.), Revolutions in consciousness: local identities, global concerns in Languages and intercultural communication. CLS - IALIC.Publications, Leeds: Leeds Metropolitan University, 2002, pp.165-174, ISBN-1-898883-09-2 (disponibile anche in Internet a: www.boylan.it -- cliccare sulla parola "ricerca").

Byram M. & Morgan C. (1994), Teaching and learning languages and culture.  Clevedon: Multilingual Matters.

Roberts C. et al. (a cura di.) (2000), Language learners as ethnographers.  Clevedon: Multilingual Matters.

Stammerjohann H. (1996), Lexicon grammaticorum.  Tuebingen: Max Niemeyer.

Pagliaro A. (1969), Il segno vivente. Torino: ERI. (orig. Napoli, 1952).

Spitzer L. (1970), Linguistics and Literary History: Essays in Stylistics.  Princeton: Princeton University Press. (orig. 1948).

Turnbull W. (2001), "An appraisal of pragmatic elicitation techniques for the social psychological study of talk: The case of request refusals", Pragmatics, II/1, 31-61.


 

Note

[1]  Boylan P. et al., (1983). Documento sui Centri Linguistici; I. La didattica nei Centri, II. L'organizzazione dei Centri.  Roma: Coordinamento Nazionale Lettori di Lingue Straniere, email:    (Versione ridotta per la pubblicazione, 1984). [Tornare al testo > ]

 

[2]  Per una bibliografia sullo studio delle lingue in quanto vive, vedi Byram & Moran (1994) e Roberts (2000) nonché i siti www.ialic.org e, per alcuni esempi pratici, www.boylan.it (cliccare sulle parole "didattica" e poi "lezioni"). [Tornare al testo > ]

 

[3] L'inizio dello studio sistematico dei fatti del linguaggio, per appurare il senso di testi scritti in una lingua morta o successivamente trasformata, risale infatti al lavoro dei grammatici alessandrini - iniziato nel III secolo a.C. - per recuperare il patrimonio letterario greco attraverso la critica testuale e l'elaborazione sia filologica che tecnica (e quindi anche sincronica) di un impianto descrittivo del linguaggio. Vedi la voce "Alessandrini" in Stammerjohann (1996). [Tornare al testo > ]

 

[4] L'immagine dantesca è quella usata da Leo Spitzer (1970) per descrivere la comprensione che rompe il cerchio ermeneutico tramite uno spostamento del soggetto nel sistema di valori dell'interlocutore, lo stesso atto di comprensione che compie chi acquisisce una lingua in quanto viva. [Tornare al testo > ]

 

[5]  L'emissione "Aaaooo, la porta!" funziona come due richiami se la prima parte viene detta perentoriamente per attirare l'attenzione sulla porta lasciata aperta; in tal caso l'aggiunta di "...la porta!" (o di un cenno in direzione della porta) costituisce una reiterazione della richiesta con focalizzazione semantica per maggiore chiarezza.  L'intonazione (due toniche invece di una pretonica+tonica) disambigua tra (1.) richiamo reiterato e (2.) singolo richiamo preceduto da un'interiezione per attirare l'attenzione.  Queste precisazioni illustrano l'interrelazione tra la linguistica e la pragmatica nel cercare di capire una qualsiasi comunicazione - a cui bisognerebbe aggiungere per completezza, però, anche l'etnometodologia, ovvero la prospettiva esistenziale che verrà discussa più avanti. [Tornare al testo > ]

 

[6] Per Turnbull (2001:31) "fraintendiamo" ciò che è il linguaggio quando lo riduciamo all'espressione scritta (written talk) e parlata (talk-as-spoken-language).  Il linguaggio fa parte, nell'uno e l'altro caso, di qualcosa di più complesso, ossia "talk-as-interaction" (p. 32): chi studia una lingua straniera, dunque, deve saper trattare qualsiasi tessuto comunicativo: scritto, parlato, fatto di soli sguardi o di soli pianti o svolto nel più completo silenzio ed immobilità. [Tornare al testo > ]

 

[7]  Un possibile meccanismo di incentivazione potrebbe essere il parere vincolante del Direttore del Centro per quanto riguarda l'assegnazione, ogni anno, di una quota dei fondi di ricerca gestiti dai vari dipartimenti. [Tornare al testo > ]