04.12.2006   ©2008 - Patrick Boylan – patrick boylan.it

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Paper presentato al Convegno “Gli Insegnamenti linguistici nelle Facoltà di Lingue. Tra ricerca e. didattica”, Università degli Studi della Tuscia, 4-6 dicembre 2006
Pubblicato in: Silvana Ferreri (a cura di), Le lingue nelle Facoltà di Lingue: tra ricerca e. didattica, Sette Città, Viterbo, 2008, pp. 61-92. ISBN: 987-88-7853-151-2







Imparare (ed insegnare) una lingua viva è un umanesimo


Patrick Boylan, Università degli Studi Roma Tre





"Il complesso evento dell'incontro e dell'interazione con la parola altrui è quasi totalmente ignorato dalle corrispondenti scienze umane. [...] La semiotica si occupa essenzialmente della trasmissione di una comunicazione già pronta mediante un codice linguistico. Nel vivo discorso, invece, a rigore di termini, la comunicazione si crea per la prima volta nel processo della trasmissione e, in sostanza, non c'è alcun codice. [...] Il codice è soltanto un mezzo tecnico dell'informazione e non ha un creativo significato conoscitivo. Il codice è un contesto appositamente stabilito e necrotizzato.”

Michail Bachtin, L'autore e l'eroe, Teoria letteraria e scienze umane. (a cura di Clara Strada Janovic), 1988 [orig. Estetika Slovesnogo Tvorcestva, 1979], Torino: Einaudi, pp. 362-366.


Premessa politico-culturale

Il recente decreto ministeriale che riordina i corsi di laurea offre un'occasione insperata per riconoscere all'insegnamento universitario delle lingue vivefinalizzato all'interiorizzazione di queste lingue proprio in quanto vivela dignità, a lungo negata, di disciplina umanistica a pieno titolo.

Negli attuali ordinamenti dei Corsi di Laurea in Lingue Straniere, infatti, le lingue vengono considerate soltanto “discipline caratterizzanti”, non di base. Invece ora grazie alle nuove Tabelle, le università che optano per la Classe 12 in “Mediazione Linguistica” potranno conferire alle materie “Lingua e traduzione” il doppio status – quello di disciplina caratterizzante e quello di disciplina di base – di cui godono da sempre le altre materie in cui ci si laurea.  A sua volta questo nuovo status consentirà alle università di raddoppiare il numero di crediti assegnati alle lingue e, in tal modo, di correggere l'attuale squilibrio, nei programmi di laurea in lingue, tra le discipline dei settori “Lingua e traduzione” e le discipline umanistiche generali.

Attualmente, infatti, in un tipico Corso di Laurea in Lingue solo il 16% dei 180 crediti previsti riguarda la lingua principale studiata (ossia 30 crediti in tutto). In altre parole, solo un sesto del totale dei crediti viene assegnato alla disciplina di cui lo Stato, con la laurea, certifica l'alta competenza. Meno ancora sono i crediti previsti per lo studio della seconda lingua in cui ci si laurea. Invece più dei due terzi del totale dei crediti vengono destinati alle materie complementari. Questo squilibrio contrasta fortemente con le proporzioni in un tipico corso di laurea in filosofia, dove il 60% dei crediti viene destinato alle materie filosofiche e solo il 40% alle materie complementari (greco/latino, storia, filologia, ecc.).

La prima tesi di questa relazione, dunque, è che vada senz'altro colta l'occasione offerta dalla nuova normativa per rettificare l'attuale squilibrio tra le materie principali e quelle complementari nei corsi di laurea in lingue, invertendo le proporzioni appena descritte. La seconda tesi è che tale correzione possa attuarsi salvaguardando il carattere giustamente umanistico della formazione complessiva impartita a Lingue. Lo si può fare recuperando dall'Umanesimo il suo senso originario, attuando poi
, in tale ottica, l'insegnamento anche “pratico” delle lingue vive. Ciò significa fare in modo che vengano interiorizzate come capacità di cogliere e di esprimere gli “infiniti mondi” di significati che si intrecciano nelle diverse culture umane: creazioni di un homo faber che “fa sé regola dell’universo” (1.).

Ma in che cosa consisterebbe un siffatto “insegnamento umanistico delle lingue” in pratica? Incentrandosi sull'uomo, nell'atto concreto di fabbricare significati attraverso l'interazione con i suoi consimili, esso darà necessariamente meno peso alla lessico-sintassi e alla riflessione metalinguistica. Quali discipline privilegerà allora? Lo vedremo nella parte iniziale di questa relazione.

La classe 12 delle nuove Tabelle offre una seconda innovazione. Precisa che circa la metà dei crediti per le lingue deve servire per dare allo studente non solo concetti bensì “
competenze linguistiche avanzate” [neretto aggiunto] che gli consentano di saper mediare. Con questa formulazione, i nuovi ordinamenti accreditano a chiare lettere la piena dignità accademica dell'insegnamento della lingua viva. Ma in che cosa potrebbero consistere praticamente queste competenze? Nel seguito di questa relazione verranno fornite alcune risposte, basate su una rivisitazione (neo-)saussuriana delle stesse nozioni di “lingua” e di “linguaggio” che, nel contempo, si ricollega alle intuizioni del primo Umanesimo.



L'insegnamento delle lingue vive

Ciò che distingue l'insegnamento delle
lingue vive in quanto talie la ricerca sulle lingue vive in quanto taliè il ricorso massiccio a discipline che studiano la co-costruzione di significati in tempo reale (che è l'essenza dell'interazione comunicativa viva).

Tra queste materie disciplinari figurano:

  1. l'etnografia svolta tramite l'osservazione partecipante e le interviste qualitative, corredate anche da analisi quantitative (Agar, 1980, 1994);

  2. la sociolinguistica, in particolare per la parte che riguarda l'analisi conversazionale (CA) e l'ethno/CA (Gumperz, 1978; Have, 1999) ;

  3. l'etnometodologia (Garfinkel,1967, Castañeda, 2006);

  4. la teoria e la tecnica del negoziato multiculturale (Brett, 2001; Lewicki et al., 2003);

  5. gli speech communication studies, in particolare per la parte che riguarda la communication accommodation theory (CAT) – la quale studia l'emergere di convergenze espressive negli scambi asimmetrici come quelli tra nativi e non-nativi (Gallois et al., 1988, 2006);

  6. i conflict resolution studies (Avruch et al., 1991, Cushner & Brislin, 1996);

  7. l'ermeneutica e il dialogo ermeneutico (Stein, 2002 [1917]; Michrina & Richards, 1996);

  8. la psicologia sociale per la parte che riguarda la ethnolinguistic identity theory (Giles & Johnson, 1987; Turner et al. 1987);

e via di seguito.

E' evidente, se escludiamo l'analisi conversazionale (punto 2.) e l'ermeneutica (punto 7.), che questi ambiti di studio offrono strumenti d'indagine poco idonei allo studio delle
lingue morteo delle lingue vive nelle loro manifestazioni puramente testuali.

N.B. Un'altra eccezione è la ethnolinguistic identity theory (punto 8) quando trova applicazione nella creazione di testi in lingua culturalmente connotati. L'esempio classico è la redazione di pastiches, sul modello del grande umanista Angelo Poliziano (vedi più avanti). Ma è possibile teorizzare – e far riprodurre agli studenti – anche discorsi orali in lingua che siano variamente connotati sul piano socioculturale, a seconda dell'appartenenza identitaria che il parlante fa sua.


Insegnare una lingua viva facendo leva sulla ricerca nelle aree appena elencate – ed in altre affini – non significa spiegare sistematicamente le varie discipline elencate per intero e nel dettaglio. Significa spiegare quel tanto che basta per consentire agli studenti frequentanti di condurre ricerche, corredate da tesine, che possano sostituire in parte i testi indicati nel “programma di esame ufficiale” (si tratta di una Lista di Letture che i non frequentanti devono invece leggere per intero).

In un insegnamento “vivo” di una lingua straniera (d'ora in poi,
L2) svolto a livello universitario, dunque, gli studenti acquisiranno saperi immanenti (phronesis, nella terminologia aristotelica – Etica nicomachea, VI, 1140a) e non soltanto saperi concettuali (episteme). Va tenuto presente che la phronesisossia “acume progettuale”, “discernimento”, “saggezza”, “conoscenza procedurale” – è un sapere “pratico” ma anche intellettivo e morale. Non va confuso, perciò, con il “saper fare” (techne, nella terminologia aristotelica) che riguarda soltanto la destrezza e la creazione di oggetti.

Per illustrare concretamente in che cosa consiste un “sapere immanente”, è sufficiente riformulare la lista appena data delle otto aree disciplinari strumentali allo studio della
lingua vivasostituendo “consapevolezzaper “conoscenzaepraxisper “concetti” – e indicando le attività di ricerca intraprese dagli studenti (in aula, fuori dall'aula) per acquisire tale sapere.

  1. L'etnografia (incentrata sulle indagini etnografiche svolte tramite l'osservazione partecipante e l'intervista qualitativa) dà come saperi immanenti:

  1. La sociolinguistica (incentrata sull'analisi conversazionale) dà come sapere immanente:

    il saper sbobinare ed analizzare le proprie interazioni conversazionali con parlanti nativi della L2 secondo i criteri CA (conversational analysis) o ethno/CA illustrati a lezione.

  1. L'etnometodologia (incentrata sui breaching experiments) dà come sapere immanente:

    il saper violare deliberatamente, per svelarli, i codici comunicativi taciti della L2, all'interno di contesti ben definiti quali le Internet chat con parlanti nativi; oppure il saper violare un valore culturale tacito del chat partner, secondo le ipotesi etnometodologiche sviluppate a lezione, ed inferire il sistema tacito di valori (Weltanschauung) dell'interlocutore.

  1. La teoria e tecnica del negoziato (incentrata sui case studies) dà come sapere immanente:
    il saper condurre una trattativa da
    insider (v. punto 8) con enti ed aziende di un paese L2 per stabilire le condizioni per un futuro viaggio, soggiorno, ammissione universitaria o altro; l'interazione telefonica avviene in Internet tramite la telefonia VoIP (gratuita) e utilizza le strategie negoziali culturalmente orientate che sono state spiegate a lezione.

  2. Gli Speech communication studies (incentrati sulla communication accommodation theory [CAT]) danno come sapere immanente:
    il saper sperimentare gli effetti di determinati accomodamenti linguistico-culturali (ad esempio, fonologici, lessicali, tematici, nel modo di interrompere...) pianificati e praticati a gradi diversi su parlanti nativi della L2, per determinare quali convergenze migliorano l'intesa e convalidano le ipotesi sulla
    forma mentis dei parlanti L2 (v. punto 8) e quali invece vengono percepite come false o affettate.

  3. I Conflict resolution studies (incentrati sugli intercultural critical incidents) danno come sapere immanente:
    il saper analizzare i
    communicative breakdownscausati da un fraintendimento linguistico-culturale o da un comportamento culturale inatteso – individuati in una delle interazioni (registrate) svolte per le ricerche fin qui elencate e proporre repair strategies da praticare in futuro, che siano in sintonia con la cultura della L2; nell'analisi gli studenti potranno usare – criticamente – gli schemi sociometrici detti “cultural dimensionsoppure le rappresentazioni grafiche alternative illustrate durante le lezioni;

  1. L'ermeneutica (con verifica sperimentale dell'empatia raggiunta) dà come sapere immanente:
    il saper dialogare, applicando le tecniche ermeneutiche d'intesa e di verifica imparate a lezione, con studenti
    ERASMUS L2 (o, da studente ERASMUS, con parlanti L2 del paese ospite), tenendo un diario degli scambi conversazionali per 2/3 mesi – in cui viene dato particolare rilievo alle sperimentazioni condotte per accertare l'effettiva condivisione di significati – e poi scrivendo una tesina sull'esito raggiunto. Esso può essere una “fusione di orizzonti” (Gadamer, 1975), la creazione di un “terzo spazio(Bhabha, 1994), “l'accomodamento culturale unilaterale(Boylan, 2007) o un altro ancora.

  1. La psicologia sociale (incentrata sulla teoria di self-categorization) dà come sapere immanente:
    il saper creare un
    cultural identikit di un sosia L2, che corrisponde ad una persona esistente nella cultura L2 con cui lo studente si identifica volentieri (un pen-pal o webcam chat partner, una celebrità, un leader politico, al limite un personaggio di un film). I valori esistenziali del sosia, documentati e trasformati in massime, costituiscono i tratti dell'identikit. Utilizzando i metodi stanislavskiani, essi vengono interiorizzati onde poter svolgere molteplici ricerche:

N.B. Per altri progetti di ricerca che consentono agli studenti sia di analizzare sia di assimilare la lingua viva da loro studiata, vedi Boylan 1983, 1995, 2003. Per i resoconti giornalieri di come questa didattica si è svolta concretamente nei corsi tenuti all'Università Roma Tre e altrove, soprattutto con studenti d'inglese del primo anno (livelli A2 o B1 del Common European Framework), vedi il sito web patrick.boylan.it cliccare su DIDATTICA poi su CORSI. Per i risultati di una valutazione dell'efficacia di questa didattica – anche per consolidare le conoscenze puramente grammaticali degli studenti – vedi alla pagina web tinyurl.com/2r23oh la relativa discussione.

L'interdisciplinarità di queste attività di ricerca studentesche, che va dalla sociolinguistica della L2 all'etnografia alla psicologia sociale, è evidente. E' altresì evidente che, oltre a dare concretezza alle indicazioni metodologiche fornite a lezione, esse consentono agli studenti di migliorare le loro capacità produttive e ricettive nella L2 (ad esempio, sbobinare una conversazione per poterla analizzare equivale in parte ad un dettato). Va sottolineato, tuttavia, che diversamente dalle solite esercitazioni in lingua, queste attività danno anche una consapevolezza, scientificamente fondata, dei meccanismi che determinano la riuscita (o meno) di un'interazione in una L2. In altre parole, al posto della dicotomia manichea praticata tradizionalmente nelle università di tutto il mondo (da una parte l'insegnamento teorico, dall'altra “la pratica”), le attività appena elencate restituiscono al sapere scientifico la sua fondamentale unità. Teoria e vissuto divengono un unico atto di apprendimento. “Knowledge is experience affermò Einstein – everything else is just information.

Criterio ultimo, dunque, della validità scientifica delle ricerche intraprese dagli studenti – le quali li portano esistenzialmente al cuore della lingua e della cultura oggetto di studio – sono le forme di conoscenza denominate Erlebnis (esperienza vissuta consapevolmente – Gadamer 1975:91) e l'Erfahrung (esperienza acquisita interagendo ossia dialogando con il mondo – id.). Esse “restring[ono] le pretese del modello meccanicistico [della scienza]” (op. cit., p.93) e, nel contempo, fondano come scientifica la phronesis aristotelica, il saper discernere operativamente, considerata dal Filosofo come “saggezza” ascientifica.

In pratica, indipendentemente dall'accuratezza della raccolta dei dati e dall'acutezza dell'analisi che li accompagna, il criterio ultimo della validità delle nuove conoscenze linguistico-culturali degli studenti rimane il grado di
transformation of consciousness (rielaborazione della propria visione del mondo dopo aver sperimentato quella di un Altro – Boylan 2003, 2007) che essi avranno conseguito nel produrle. Quella trasformazione si manifesterà poi nel modo più autentico ed efficace di relazionarsi e di esprimersi in lingua durante l'esame orale. Gli studenti parleranno più autenticamente in lingua perché penseranno e sentiranno più autenticamente in lingua.

Lo studio delle lingue
in quanto vive, dunque, è una disciplina universitaria che è viva anche epistemologicamente. In ciò si distingue nettamente dall'insegnamento meramente prescrittivo delle lingue (quello che tutti noi abbiamo conosciuto a scuola e che conferisce solo nozioni). In quanto epistemologicamente “vivo” si distingue anche dall'insegnamento descrittivo delle lingue, ossia quello praticato nella quasi totalità degli odierni corsi universitari di “Lingua e traduzione” (e delle relative filologie), fondato su criteri epistemologici positivisti o neo-positivisti e capace di conferire, in termini gadameriani, soltanto saperi meccanicistici, cioè non fondati sull'Erfahrung.



L'insegnamento “tradizionale” delle lingue

A questo punto la discussione diventa delicata. Se, per valorizzare lo studio della lingua viva, occorre dare maggiore spazio, sia in aula che nei laboratori di ricerca, alle discipline incentrate sulla co-costruzione di significati in tempo reale, di riflesso – essendo fisso per legge il numero di esami e carenti per consuetudine i fondi per la ricerca – occorre ridurre lo spazio attualmente concesso all'insegnamento e alla ricerca svolti con l'ausilio di quelle discipline che hanno rappresentato fino ad oggi il cardine delle facoltà di lingue (in Italia e in tutto il mondo), vale a dire le discipline elaborate attraverso i secoli per lo studio delle lingue mortee successivamente per lo studio squisitamente testuale delle lingue vive.

Si tratta delle discipline linguistiche descrittive cui abbiamo appena accennato e che informano quasi tutti gli attuali insegnamenti di “Lingua e traduzione”, delle varie filologie e
delle discipline del settore L-Lin/01 (le quali descrivono o teorizzano le proprietà delle lingue in generale). Queste discipline sono:

e via discorrendo.

N.B. Va precisato che, nello “studio testualedelle lingue con gli strumenti appena elencati, i testi sottoposti ad analisi non devono essere necessariamente elaborazioni scritte. Qualsiasi discorso orale diventa “testo” suscettibile di analisi con questi strumenti (e quindi cessa di essere “lingua viva) non appena esso viene percepito come campione di linguaggio, delimitato e non più in diveniread esempio, non appena esso viene trascritto o semplicemente registrato su un nastro.
In altre parole,
il concetto di “lingua vivanon coincide affatto con la nozione di “linguaggio parlato. Anzi, una lezione di lingua inglese nella quale vengono commentate, poniamo, le conversazioni video-registrate di Henry Miller in cui il celebre drammaturgo illustra con brio le sue tecniche (Evans, 1967), è a tutti gli effetti un insegnamento di “lingua morta. Lo è perché l'oggetto dello studio è un testo, per quanto audiovisivo (dunque parlato) e di un personaggio contemporaneo (dunque sincronico); cioè, è un campione di linguaggio delimitato, già bell'e realizzato, che viene commentato in quanto tale.

C
ostituisce invece una lezione di “lingua viva” – per quanto basato interamente sullo scrittoun corso sullo stesso argomento, svolto senza il video e quindi senza il parlato, che faccia capire ed interiorizzare le tecniche scrittorie di Miller (l'interiorizzazione può avvenire, ad esempio, attraverso l'invio ripetuto, da parte degli studenti, dei loro pastiches della scrittura di Miller agli studenti di un corso gemellato in una università americana, fin quando i pastiches non vengano accettati come “abbastanza convincenti”). Al termine di un siffatto corso, gli studenti dovranno essere in grado di illustrare, seppure con meno brio e perizia di Miller, le sue tecniche e di imitare la sua scrittura. Dopo l'assimilazione di molteplici modelli di stile e poi con la loro fusione in uno stile proprio, gli studenti acquisteranno una capacità di scrivere nella L2 che sarà autentica, consapevole, efficace e, nel contempo, propria ad ognuno di loro. Questa è la “lingua viva.

Le diverse discipline linguistiche “tradizionali” appena elencate, elaborate attraverso i secoli per l'analisi dei testi, hanno un indiscusso valore sia culturale che formativo. Infatti, sapere una lingua è, necessariamente, saper interpretare anche le sue manifestazioni testuali, che comprendono:

Le discipline linguistiche “tradizionali” sono dunque da includere immancabilmente, per quanto variabilmente e anche facoltativamente in determinati percorsi di studio, nei programmi di qualsiasi corso di laurea in lingue che pretende di essere metodologicamente completo – le discipline filologiche perché insegnano il metodo storico-comparativo e le discipline linguistiche perché insegnano metodi descrittivi e formalizzanti per rendere conto dei processi semiotici e psico-sociali a monte delle realizzazioni verbali.

Ma, premesso ciò, bisogna avere anche l'onestà intellettuale di riconoscere che queste
modalità conoscitive tradizionali, incentrate sulla descrizione e sull'interpretazione di testi orali o scritti, non sono formative alla stessa maniera delle modalità conoscitive acquisite con lo studio della lingua viva. Quest'ultime, infatti, nell'arco di un triennio preparano meglio lo studente a studiare e ad afferrare l'immanenza dell'activité langagière e il suo intrinseco carattere di bricolage; preparano meglio lo studente ad afferrare la stessa lingua studiata come famiglia meticcia di idiomi in divenire. Queste percezioni consentono agli studenti poi, una volta laureatisi, di ricoprire in maniera più competente ruoli professionali quali: negoziatore internazionale, mediatore in incontri multiculturali, addetto stampa, portavoce per gli esteri, language coach o traduttore per le realizzazioni cinematografiche o televisive, ricercatore capace di condurre interviste qualitative in lingua (ad esempio, per prevedere tendenze editoriali europee o mondiali), ricercatore capace di distanziarsi dalla propria cultura e di dislocarsi in altre (ad esempio, per studiare sul campo l'integrazione multietnica o la riabilitazione dei profughi con traumi), ricercatore capace di gestire processi complessi in lingua svolti in tempo reale (ad esempio, per studiare le interazioni video-audio-testo nelle teleconferenze in lingua di tipo Skype nonché, ovviamente, per parteciparvi) e via discorrendo.

N.B. Mentre è pacifico che una laurea in lingue non debba preparare lo studente a svolgere le specifiche attività professionali elencate, è ugualmente evidente che se un laureato in lingue non ha almeno le competenze linguistiche per svolgerle, il suo titolo di studio attesta un falso. Non gli è stata insegnata la lingua indicata sul certificato di laurea, bensì solo un sottoinsieme di quella lingua, ossia la sola conoscenza necessaria per analizzare e commentare testi in lingua: in pratica, la conoscenza che si ha di una lingua morta.

Infatti, le otto indagini sulla lingua viva descritte all'inizio di questa relazione forniscono a chi le svolge determinate competenze che la filologia o le scienze del linguaggio – come vengono solitamente insegnate nel triennio universitarionon danno né possono dare.

Queste competenze, infatti, rendono il discente capace di:

La seguente tabella illustra le somiglianze e le divergenze tra i due tipi di disciplina.


LE DISCIPLINE ELABORATE PER
LO STUDIO DELLE "
LINGUE VIVE"
IN QUANTO "VIVE"

come, ad esempio, l'etnografia, l'etnometodologia, gli speech communication studies e la CAT, etc.

LE DISCIPLINE ELABORATE PER
LO STUDIO DELLE "
LINGUE MORTE"
(O DELLE MANIFESTAZIONI SOLO TESTUALI
DELLE "
LINGUE VIVE")

come, ad esempio, la morfo-sintassi, la filologia, la linguistica contrastiva, il genre analysis, etc.

Queste discipline studiano gli atti comunicativi in lingua in quanto:

eventi

testi

perlopiù in svolgimento, in divenire.

perlopiù conchiusi, delimitati.

Queste discipline studiano gli atti comunicativi in lingua tramite:

metodi sia interpretativi che sperimentali:

interpretativi in quanto mirano alla comprensione dei fenomeni linguistico-comportamentali colti in divenire (“l'ermeneutica dell'evanescente”);

sperimentali in quanto alla verifica delle interpretazioni, svolta interattivamente attraverso, per esempio, l'osservazione partecipante o i breaching experiments;

(filologia) il metodo della comparazione formale, storicamente suffragata, dei soli testi scritti (con preferenza per i capisaldi della cultura) e dei sistemi di segni che li compongono,

(linguistica) il metodo della descrizione e della successiva formalizzazione in meta-sistemi semiotici, anche generativi, dei fenomeni segnici rilevati in “testi qualsiasi”, sia scritti che orali,

metodi che sono finalizzati all'introiezione dei valori riscontrati, che si trasformano in disposizioni a reagire e ad esprimersi in determinate maniere per determinati motivi (consapevolezza teleologica dell'activité langagière),

il tutto finalizzato all'elaborazione sia di concetti con valore euristico (congetture, leggi, regole, tassonomie) sia di sistemizzazioni definitive:

-- (filologia) testi canonici, genealogicamente ricostruiti,

-- (linguistica) grammatiche, vocabolari, teorie generali del linguaggio,

la quale introiezione dei valori modifica sia i comportamenti espressivi degli studenti, sia la loro Weltanschauung. Ciò relativizza il loro etnocentrismo ereditato e li predispone alla comprensione degli aspetti non sistematici degli atti comunicativi unici in L2 che incontreranno.

le quali elaborazioni euristiche non provocano (né devono provocare) modifiche nel comportamento dello studente, né facilitano la relativizzazione del pensiero (in quanto tutto viene fatto rientrare in sistemi onnicomprensivi raziocinanti).

Queste discipline studiano gli atti comunicativi in lingua per promuovere nel discente:

l'acquisizione della lingua in quanto viva, quindi sui piani cognitivo, affettivo e, soprattuto, volitivo,

l'apprendimento della storia e della struttura della lingua, generalmente sul solo piano cognitivo (e comunque non volitivo)

e la creazione di discorsi in lingua pragmaticamente efficaci e culturalmente autentici (per quanto limitatamente alle figure culturali introiettate, anche figure marginali – ad esempio, un parlante della sottocultura rap L2)

nonché l'apprezzamento dei discorsi in lingua (ma non la loro fruizione autentica, se non in misura limitata, in quanto il discente non è stato portato ad interiorizzare il sistema di valori che dà loro vita)

attraverso la costruzione collegiale di un "significato in divenire", il cui spessore trascende il contesto di enunciazione per ricollegarsi alla Weltanschauung di una comunità,

(filologia) attraverso il commento di testi compiuti, per quanto aperti all'interpretazione nel caso di testi letterari, giuridici, ecc.,
● (linguistica) attraverso il commento dei fenomeni linguistici alla luce di sistemi teorici raziocinanti ed
onnicomprensivi,

● – discorsi che giocano su vari registri per svolgere molteplici funzioni (instaurare e regolare rapporti, persuadere, divertire, accertare) –

il quale commento viene espresso in lingua all'esame, usando un solo registro (quello accademico) e una unica funzione (quella espositiva)

il che consente di raggiungere un alto grado di espressività in lingua, verbale e comportamentale, e di capacità di vagliare criticamente il raggiungimento di un “significato condiviso” (ossia, di un'intesa) con interlocutori L2 di qualsiasi provenienza.

(filologia) allo scopo di dimostrare l'avvenuta storicizzazione delle conoscenze dello studente, raccordandole con ciò che esprime il testo, e una capacità di lettura critica anche riportata al presente.
●.(linguistica) allo scopo di dimostrare le sole capacità concettuali dello studente nel cercare di afferrare, di interpretare e di inquadrare i fenomeni linguistici.


N.B. Per riformare un Corso di Laurea in Lingue ispirandosi a questa tabella, occorrerebbe creare due curricula (o due percorsi all'interno di un curriculum) con le due finalità formative indicate. Gli studenti dovrebbero poter scegliere liberamente l'uno o l'altro percorso in base ai loro interessi reali. Qualora uno dei percorsi mancasse di studenti, andrebbero create incentivazioni quali borse di studio (non imposizioni nei programmi di studio per “dirottare” gli studenti verso il curriculum più esposto). Inoltre, dal momento che un certo numero di insegnamenti risulteranno necessariamente comuni ai due percorsi (ad esempio, la storia della lingua studiata), bisognerebbe variare il numero di crediti concessi a tali insegnamenti in ciascun percorso, per poter inserire o valorizzare altri insegnamenti e così garantire una effettiva differenziazione finale.



L'insegnamento umanistico della lingua viva

La creazione di uno specifico percorso formativo in lingua viva, con le caratteristiche appena illustrate nella colonna sinistra della tabella, consentirebbe dunque alle università di laureare studenti che abbiano acquisito contemporaneamente, negli stessi corsi ufficiali:

  1. sia conoscenze “operative” espressive nella L2 – cioè, le capacità produttive e ricettive necessarie per poter interagire in una lingua efficacemente e consapevolmente;

  1. sia conoscenze “operative” scientifichecioè, le capacità necessarie per discernere e verificare, in eventi comunicativi in svolgimento, i meccanismi di produzione e di condivisione di significati in lingua, attraverso sperimentazioni formali ed informali;

  1. sia conoscenze “operative” didattiche (ed autodidattiche) che consentiranno agli studenti di continuare ad imparare la L2 per conto proprio dopo la laurea, usando le tecniche di (auto-)apprendimento acquisite a lezione – o inventando, sulla falsa riga di quelle tecniche, attività autodidattiche consone con le esigenze che man mano si manifesteranno nel corso della vita di ciascuno (lifelong learning).

L'insegnamento di queste tre conoscenze – in particolare la prima, la quale consente di capire e di governare il processo di co-produzione e di condivisione di significati in lingua in tempo reale – è un umanesimo a pieno titolo; anzi, è la ragion d'essere stessa della presenza delle discipline “Lingue e Traduzione” all'università.

E' un umanesimo poiché incentrato sull'uomo in quanto costruttore del proprio universo di significati, il che rappresenta l'insegnamento più profondo dell'Umanesimo e del Rinascimento (Garin, 1973). Infatti, le tre conoscenze elencate, proprio come lo stesso Umanesimo, non si fondano epistemologicamente sugli auctores né su leggi date; esigono che lo studente diventi eticamente responsabile del proprio sapere (2.).

E' un umanesimo poiché costruisce un sapere che non è il mero commento critico di testi o la rielaborazione di “saperi consolidati” – pratiche euristiche tipiche degli Scolastici, deprecate dagli Umanisti e tuttavia prevalenti ancora oggi, persino tra i docenti universitari che più si richiamano all'Umanesimo. Ogni corso di
lingua viva è, invece, autenticamente umanistico in quanto riscoperta dei saperi. L'apprendimento della grammatica della L2, per esempio, non si fonda sui “testi autorevoli” di per sé, bensì, in prima istanza, sui dati, diastraticamente più vari e più contestualizzati di quelli forniti da qualsiasi grammatica, raccolti nei chat etnolinguistici condotti dagli studenti in Internet (3.).

E' un umanesimo poiché privilegia un modo di studiare che
parte dall'interazione col reale per poi ricongiungersi ad esso. Una lezione di lingua viva, ad esempio, raccoglie i tentativi di osservazione partecipante svolti dagli studenti presso una comunità straniera per poi elaborare maieuticamente con gli studenti in aula le condizioni per un dialogo interculturale più autentico in futuro. In ciò fa propria la massima umanista Agere et intelligere. Secondo Giannozzo Manetti (De Dignitate et Eccellentia Hominis, 1451), infatti, l'uomo deve prima agere per poi intelligere ed infine agere sul mondo intorno per migliorarlo (4.).

Incentrato, dunque, sull'essere umano nell'atto concreto di co-costruire significati, negoziando la propria collocazione in un nuovo universo di valori culturali, l'insegnamento delle lingue vive in quanto vive è un umanesimo:

N.B. L'insegnamento della lingua viva, abbiamo detto, comporta la dislocazione del parlante nell'universo di valori del suo interlocutore per poi ricercare punti di contatto con il proprio mondo. Ma questo atto è anche l'essenza della traduzione. Perciò insegnare la lingua viva, più ancora che insegnare le linguistiche areali, rientra nella ratio dei settori disciplinari denominati “Lingua e Traduzione.

Anzi, per fare chiarezza,
le linguistiche areali, che predominano attualmente negli insegnamenti di lingua all'università, andrebbero tolte dai settori Lingua e Traduzione” e collocate nel settore disciplinare L-Lin/01 con le altre scienze linguistiche descrittive, proprio per via:

     

La ridefinizione dei concetti di “lingua” e di “linguaggio”

Sul piano propriamente scientifico, la proposta di un siffatto spostamento di enfasi – dalle discipline linguistiche nate per analizzare testi o per descrivere il linguaggio testuale come sistema, a quelle elaborate per afferrare gli aspetti dinamici delle interazioni in lingua – porta necessariamente alla ridefinizione dello stesso termine “lingua. Del resto, la definizione corrente (“sistema semiotico verbale”) è stata già messa in discussione dalle nuove conoscenze emerse in campi affini, come ad esempio:

Questi ed altri studi suggeriscono dunque che le lingue non sono, essenzialmente, né insiemi di parole né insiemi di gesti, legati da regole combinatorie – e pertanto non andrebbero insegnate a partire dal lessico e dalla sintassi. Esse sono piuttosto matrici volitivesedimentazioni storiche di atti di voler direche, per esternarsi, sfruttano una pluralità di possibili repertori di segni. (Tra gli udenti il repertorio prevalente è quello verbale – ma non sempre e comunque non necessariamente come canale predominante, come ha notato acutamente Malinowski quasi un secolo fa (1972:52 [1923]).

Perciò lo studente che non vuole o che non arriva ad interiorizzare la sua L2 come matrice volitiva non può asserire di parlare quella lingua, anche se sa formulare enunciati grammaticalmente corretti e pragmaticamente appropriati usando il relativo repertorio verbale. Egli è come il bambino apatico a cui i genitori hanno fatto fare tante lezioni di pianoforte ma che continua a strimpellare. Anche quando egli riesce a suonare la corretta successione di note mantenendo il tempo appropriato, suona comunque male perché non sente, dentro di lui, la musica (la quale, appunto, non è semplicemente un'insieme di note legate da regole di armonia e di ritmo).

A sua volta, la nostra ridefinizione del concetto di “lingua” comporta anche la ridefinizione dei concetti saussuriani di
langue e di parole, le due facce dei sistemi espressivi basati su segni articolati “non calcolabili” (cioè, illimitati in quanto a numero, combinazioni e sinonimie – De Mauro, 1980:94) che abitualmente chiamiamo “l'italiano”, “il finlandese” oppure “la LIS” (Lingua Italiana dei Segni), “l'ASL” (American Sign Language) ecc.

Nella nuova ottica prospettata qui, che potremmo chiamare neo-saussuriana, per langue s'intenderà dunque la “disposizione” o lo “stato esistenziale” che predispone l'individuo ad esprimersi in modo culturalmente condizionato (usando parole e/o gesti, smorfie, effetti paralinguistici ed altri mezzi, da italiano, da finlandese, da sordo-muto italiano, da sordo-muto americano, ecc.) e che viene acquisito attraverso la sedimentazione – sia nella psiche collettiva di una comunità sia nella psiche di ogni suo membro – delle configurazioni pulsionali, valoriali ed espressive che formano la memoria storica di quella comunità (e, variabilmente, di ogni suo membro).

In modo analogo, il termine saussuriano
parole si riferirà, nella nuova ottica prospettata qui, non tanto agli “enunciati concreti”come, per esempio, l'enunciato prodotto da un marito che saluta la moglie che rientra dal mercato:

Ciao!” (ITALIANO)                          (ASL)                          [sguardo silenzioso] (FINLANDESE)

quanto agli “stati volitivi articolati” a monte, che l'individuo cerca di imprimere su un evento comunicativo attraverso certe parole, attraverso certi gesti e smorfie o persino attraverso il silenzio di un certo tipo. Ecco perché insegnare le lingue in quanto vive – tramite, ad esempio, le otto attività di ricerca illustrate all'inizio di questa relazione – vuol dire insegnare agli studenti a cogliere (e a saper riprodurre a loro volta) particolaristati volitivi articolati” variamente rappresentati (Boylan 2006).

Per meglio chiarire queste distinzioni, possiamo ricorrere ad una metafora. Ciò che noi chiamiamo abitualmente “l'italiano” o “il finlandese” – oppure “la LIS” o “l'ASL” – è soltanto la buccia, cioè la parte esterna della
langue. La polpa, invece, è la matrice volitiva che costituisce l'essenza della langue e che dà ad un atto di parole (come la polpa di un frutto dà ad una macedonia) il suo sapore caratteristico.

N. B. La nostra definizione di “lingua” (nonché di “langue”/parole) ci consente di vedere in che senso l'italiano parlato e la LIS (Lingua Italiana dei Segni) possono considerarsi essenzialmente la stessa lingua. Infatti, entrambe le varietà espressive derivano dalla stessa matrice volitiva ed espressiva “italica”, culturalmente sedimentata attraverso i secoli. Solo le loro “bucce” sono diverse. Lo stesso può dirsi per l'ASL (American Sign Language) e l'inglese americano parlato. Queste due varietà sono gemellate, non perché l'ASL sia la semplice traduzione in gesti delle parole dell'inglese americano parlato (non lo è), ma perché sia i gesti degli americani sordomuti che il parlato degli americani udenti traducono un medesimo modo oltreatlantico di porsi, di esprimersi e di vedere il mondo, per quanto vario ed ibrido sia quel modo da individuo ad individuo.

Certo, tra le varietà parlate e segnate di una stessa lingua, esistono molte differenze, dovute anche alla diversità dei procedimenti di esternazione. Per esempio, la sonorità di un verso dantesco in italiano parlato è difficilmente riproducibile tramite gesti in LIS, mentre la complessità dei verbi di movimento resa dai gesti in LIS è difficilmente riproducibile a parole in italiano parlato. Inoltre esiste tra i sordomuti italiani e quelli di altri paesi una
subculture trasversale che consente, tramite la traduzione da una lingua dei segni in un'altra, una comunicazione tra di loro più ricca – per certi aspettidi quanto spesso non avviene tra loro e gli udenti segnanti delle loro rispettive culture nazionali. Perciò l'italiano parlato e la LIS potrebbero sembrare, a prima vista, due idiomi linguisticamente e culturalmente diversi e non, come abbiamo appena asserito, due varietà espressive di una medesima lingua. Lo stesso, almeno in apparenza, tra l'ASL e l'inglese americano parlato, tra la LSF (Langue des signes française) e il francese parlato, ecc.

Tuttavia bisogna riconoscere che l'intraducibilità esiste anche tra i canali espressivi usati da una stessa lingua nelle sue manifestazioni puramente verbali: ad esempio, tra la prosodia nell'italiano orale e i grafemi stilizzati nell'italiano scritto, tra i gesti batonici che punteggiano variamente l'italiano parlato e la punteggiatura assai più scarsa prevista per l'italiano scritto. Inoltre esistono
subculture trasversali anche tra udenti italiani e udenti di altri paesi, ad esempio quella rap di recente diffusione. Un giovane rapper italiano, udente, può intendersi meglio – per certi aspetticon i rapper di Singapore, affidandosi nelle chat su Internet alle traduzioni automatiche molto approssimative dei suoi versi italiani e dei loro versi singlish, di quanto egli non s'intenda con i membri della propria famiglia, tutti udenti e italiani. Eppure in tutte queste manifestazioni espressive continuiamo a riconoscere, nonostante le intraducibilità linguistiche e le incomprensioni culturali, l'esistenza di una medesima lingua e cultura che chiamiamo l'italiano, descrivibile essenzialmente:

Lo stesso discorso vale per i parlanti e segnanti di una stessa comunità linguistico-culturale.


La nostra definizione di lingua come “matrice volitiva”, anziché come “sistema semiotico verbale”, trova riscontro anche nei corsi aziendali, che proliferano nelle multinazionali da oltre trent'anni, incentrati sulla comunicazione interculturale. Questi corsi mirano ad insegnare ai manager in partenza per l'estero come relazionarsi con la gente del posto. Invece di insegnare loro nuovi vocaboli nella lingua franca che dovranno adoperare (di solito, l'inglese), i corsi cercano di dare ai discenti la “transformation of consciousnesse il nuovo “will to bee “will to meannecessari per potersi dislocare (e quindi agire con efficacia) nel mondo di valori dei loro futuri interlocutori. Una volta acquisita questa capacità, basteranno ai manager i vocaboli della lingua franca che già posseggono, per poter stabilire intese più autentiche e più solide.

La nostra definizione di
lingua come “matrice volitiva” – esistenziale prima ancora che verbale – collima anche con la definizione del linguaggio e poi dello stesso concetto di lingua che il grande filologo e linguista Antonino Pagliaro ha formulato in questi termini:

il linguaggio, che è energeia, attività individuale, è pure nomos, poichè l'individuo è pur esso nomos";

e poi:

"La lingua esiste in quanto un individuo la parla, vi imprime ed esprime il proprio sentimento, il proprio pensiero, la propria volontà ... La lingua non è dunque un mezzo di cui l'uomo si appropri a suo gradimento, ma esso è in lui appunto perché è lui; ha nell'individuo la sua legge, è nomo, come ha visto Platone. Un individuo parla in una determinata lingua e in una determinata maniera perché egli è quel determinato individuo che ha nella storia un posto ben distinto. Chi parli una lingua straniera, saprà veramente parlarla quando gli sarà riuscito di porre se stesso al posto dell'individuo che la parla da quando ha avuto l'uso della parola, e di essa conosce tutte le risonanze e tutte le sfumature che solo a lui perché è lui sono svelate" – Pagliaro (1993 [1930]: 100, 1001) (neretto aggiunto).

Tutte le attività di ricerca per gli studenti che sono state descritte all'inizio di questo saggio, in particolare l'ottava attività ossia il cultural identikit, sono tentativi di implementare la visione di Pagliaro in un corso universitario di lingua viva.

Aggiungiamo, per concludere, che la nostra definizione di lingua come “matrice volitiva”, anziché come “sistema semiotico verbale”, trova un riscontro anche nella radice latina della parola “umanesimo”, ossia humanĭtas che indica “le qualità umane”, come nella locuzione “ad humanitatem informare= “incivilire”, “acculturare ad un insieme di valori”.

Infatti, per il grande umanista italiano
Angelo Poliziano, sapere il latino significava sapersi immergere nella matrice volitiva (humanĭtas) degli antichi romani – fino al punto di trovare gusto a scrivere poesie come essi avrebbero fatto per poi discuterne in latino con amici in cenacoli (qualcuno addirittura indossava per l'occasione toga e sandali). Significava, cioè, far propria la umanità degli antichi, la quale era un modo sia di essere e di vedere che di esprimersi. Con meticolosità, scrive Petrilli (1996:742), Poliziano “ricostruiva la matrice culturale che dotava ogni autore classico della sua fisionomia distinta, evidenziata nel suo linguaggio”, per poi farla diventare sua.

Questo, del resto, è fondamentalmente ciò che abbiamo proposto con l'attività di ricerca n° 8
la costruzione, da parte degli studenti, di un identikit linguistico-culturale di un sosia L2 e la sua introiezione. Si tratta dunque di una modalità di apprendimento autorevolmente suffragata, non di una didattica “fantasiosa” o “fantascientifica”. Il grande filologo Pagliaro la giustificò teoricamente tre generazioni fa e il grande umanista Poliziano la mise in pratica per apprendere il latino e il greco cinque secoli fa. Anzi, se tutti i docenti di latino e di greco che operano oggi nelle scuole e nelle università italiane fossero come il Poliziano, allora potrebbe sì giustificarsi la didattica praticata da tanti docenti oggi, sia a Scuola che nelle facoltà universitarie, i quali perseverano nell'insegnamento delle lingue vive usando gli stessi metodi praticati dai loro colleghi nell'insegnare le lingue morte!

Insegnare oggi le
lingue vivein quanto vive – in una prospettiva umanistica, dunque, vuol dire essenzialmente farle interiorizzare come matrici volitive, attraverso la metodica sperimentazione in situ dei meccanismi e dei rituali, elaborati dalle diverse comunità linguistiche umane, per co-costruire e condividere i loro infiniti universi di significati e di valori (5.).


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Note

1. L'espressione “infiniti mondi” è ovviamente di Giordano Bruno (De l'Infinito Universo et Mondi, 1584), il quale, per Lollini (1995), rappresenta il punto di arrivo dell'Umanesimo. Bruno infatti relativizzò l'antropocentrismo del primo umanesimo, collocando l'uomo tra infiniti universi di significati. L'espressione “fa sé regola dell'universo", riferitasi a colui che “non sa” ma anche implicitamente a colui che pensa di sapere (poiché solo Dio sa con certezza), è invece di G. B. Vico (Scienza Nuova, Libro Primo, II,1 e soprattutto Libro Secondo, II,2,1). L'opera di Vico, sempre per Lollini, sintetizza i due estremi dell’umanesimo italiano: Pico della Mirandola, per il quale l'uomo è faber fortunae suae, e appunto Giordano Bruno, “spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si fa fondator di machine di perversitade(De l'Infinito, Proemio). Per entrambi il sapere è prodotto della volontà dell'uomo ed è pertanto anche scelta etica. (Ritornare al testo)

2. Secondo Ong (2004 [1958]), l'enorme diffusione del “Ramismo” nell'Europa umanista sarebbe inspiegabile, considerata la modesta statura di Petrus Ramus (Pierre de la Ramée), se non fosse per via del messaggio che esso trasmetteva: vale a dire, le regole vanno ricercate, non dapprima nei testi aristotelici – anche se accuratamente ripristinati – e tanto meno nelle sistematizzazioni trasmesse dalla tradizione scolastica, bensì attraverso una certa pratica:

3. Abbagnano (1973:134) nota che l'umanista Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, 1439) era giunto a far giurare ai suoi studenti di non commentare Aristotele nemmeno tra di loro ma di trovare motivi per criticare i testi aristotelici di retorica o di politica agendo sul mondo. Così il successivo confronto metodico con i testi sarebbe stato fondato su dati effettivamente riscontrati.  (Ritornare al testo)

4. La massima Agere et Intelligere, formulata da Manetti, fu subito adottata come motto dell'Umanesimo e poi del Rinascimento (Garin, op. cit.). Essa indica (1.) sia un preciso metodo pedagogico, ossia agire sul mondo per poterlo capire, (2.) sia una precisa finalità etica, vale a dire, capire il mondo per poter agire su di esso (migliorarlo). E' quindi ironico che oggigiorno i più rumorosi difensori dell'impostazione umanistica nei curricula universitari siano proprio i più accaniti critici di qualsiasi tentativo, nelle Facoltà di Lingue, di agganciare gli insegnamenti: (1.) ai vissuti in lingua degli studenti acquisiti agendo nel mondo, e (2.) alle nuove esigenze di comunicazione interlinguistica ed interculturale espresse dal mondo produttivo e dalle nuove forme di telecomunicazioni e mass media.  (Ritornare al testo)

5. Questo concetto verrà ulteriormente sviluppato nei saggi a partire dal n° 31 che appariranno sul sito patrick.boylan.it/ricerca.htm nonché sul sito universitario host.uniroma3.it/docenti/boylan/ricerca.htm .

(Ritornare al testo)



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N.B. Nel digitare gli indirizzi Internet non va utilizzato il prefisso “www”.


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