1 novembre 2004
Andreotti.
Dove abita la verità di Livio
Pepino
Sito della Rete,
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Dopo
dodici anni, tre dibattimenti e un milione e 426 pagine di atti
processuali - come puntigliosamente precisato dai media - il
processo a carico del senatore Andreotti per partecipazione ad
associazione mafiosa si è concluso, il 15 ottobre scorso,
con la conferma, in Cassazione, della sentenza di appello che ha
ribadito l'assoluzione pronunciata in primo grado con riferimento
al periodo successivo alla primavera del 1980.
La stessa
sentenza ha, peraltro, dichiarato non doversi procedere nei
confronti dell'imputato in ordine al reato di associazione per
delinquere, commesso fino alla primavera deI 1980, per essere lo
stesso reato estinto per prescrizione.
Le aule di
giustizia, dunque, non hanno più nulla da dire al riguardo
e devono ora parlare la politica e la storia.
Ma il
giudizio politico e quello storico non possono ignorare i fatti
accertati in sede giudiziaria, così riassunti nella pagine
finali della sentenza di appello: «Una autentica, stabile
ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi
non si (è) protratta oltre la primavera del 1980.
Eventuali - non compiutamente dimostrate - manifestazioni di
disponibilità personale del sen. Andreotti successive a
tale periodo sono state semplicemente strumentali e fittizie,
comunque non assistite dalla effettiva volontà di
interagire con i mafiosi anche a tutela degli interessi della
organizzazione criminale: anzi, in termini oggettivi è
emerso un sempre più incisivo impegno antimafia, condotto
dall'imputato nella sede sua propria della attività
politica. Deve, dunque, escludersi che sia rimasto dimostrato che
il sen. Andreotti abbia, nel periodo successivo alla primavera
del 1980, coltivato amichevoli relazioni con gli esponenti di
Cosa Nostra, abbia palesato una sincera disponibilità nei
confronti dei medesimi, abbia concretamente agito per agevolare
il sodalizio criminale, abbia arrecato un contributo al
rafforzamento dello stesso. (...) Per contro, in relazione al
periodo precedente la Corte ha ritenuto la sussistenza:
-
di amichevoli ed anche dirette relazioni del sen. Andreotti con
gli esponenti di spicco della cd ala moderata di Cosa Nostra
Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, propiziate dal legame del
predetto con l'on. Salvo Lima ma anche con i cugini Antonino ed
Ignazio Salvo, essi pure, peraltro, organicamente inseriti in
Cosa Nostra;
- di rapporti di scambio che dette
amichevoli relazioni hanno determinato: il generico appoggio
elettorale alla corrente andreottiana (...); il solerte attivarsi
dei mafiosi per soddisfare, ricorrendo ai loro metodi, talora
anche cruenti, possibili esigenze - di per sé, non sempre
di contenuto illecito - dell'imputato o di amici del medesimo; la
palesata disponibilità ed il manifestato buon
apprezzamento del ruolo dei mafiosi da parte dell'imputato,
frutto non solo di un autentico interesse personale a mantenere
buone relazioni con essi, ma anche di una effettiva
sottovalutazione del fenomeno mafioso, dipendente da una
inadeguata comprensione - solo tardivamente intervenuta - della
pericolosità di esso per le stesse istituzioni pubbliche
ed i loro rappresentanti;
- della travagliata, ma non per
questo meno sintomatica ai fini che qui interessano, interazione
dell'imputato con i mafiosi nella vicenda Mattarella, risoltasi,
peraltro, nel drammatico fallimento del disegno del predetto di
mettere sotto il suo autorevole controllo la azione dei suoi
interlocutori ovvero, dopo la scelta sanguinaria di costoro, di
tentare di recuperarne il controllo, promuovendo un definitivo,
duro chiarimento, rimasto infruttuoso per l'atteggiamento
arrogante assunto dal Bontate.
I fatti che la Corte ha
ritenuto provati dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena
consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano
amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua
volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha
palesato agli stessi una disponibilità non meramente
fittizia, ancorché non necessariamente seguita da
concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto
favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro
indicato il comportamento da tenere in relazione alla
delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in
definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero
seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli
anche di fatti gravissimi (come l'assassinio del presidente
Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio
di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro
responsabilità, in particolare in relazione all'omicidio
del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire
utilissimi elementi di conoscenza. (...) Dovendo esprimere una
valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che
essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione
di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza
penalmente irrilevante, ma indichino una vera e propria
partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente
protrattasi nel tempo».
* * * * *
La
citazione - della cui lunghezza ci scuseranno i lettori - è
esplicita e univoca: fino alla primavera del 1980, e per un
periodo apprezzabile, c'è stata, da parte del sen.
Andreotti, «una vera e propria partecipazione alla
associazione mafiosa», che si è interrotta solo in
tale anno, quando l'ex presidente del Consiglio ha infine
percepito la pericolosità di Cosa Nostra ed ha mutato
atteggiamento ponendo in essere anche atti politici diretti a
contrastarla. Questo è quanto accertato in sede
giudiziaria. Ovviamente si tratta di un accertamento e di un
giudizio suscettibili di critica: sia nella valutazione della
portata e del significato delle condotte del senatore Andreotti
anteriori al 1980 sia nella verosimiglianza della avvenuta
percezione da parte sua della pericolosità di Cosa Nostra
solo dopo anni di omicidi "eccellenti" e documentate
denunce della Commissione antimafia. Ma ciò che non è
lecito fare - per un elementare rispetto della verità - è
dire che la sentenza della Corte d'appello di Palermo (confermata
dalla Cassazione) ha «assolto il senatore Andreotti»,
«posto fine a una persecuzione e a un calvario»,
«riabilitato la Democrazia cristiana», «restituito
credibilità alle istituzioni». Eppure sono queste le
affermazioni che, oggi come all'indomani della sentenza di
appello, hanno dominato la scena; e a pronunciarle sono stati non
solo alcuni tra i più autorevoli opinion makers ma anche
politici di primo piano e persino alcuni vertici istituzionali.
Non essendo pensabile che essi non conoscano il diverso
significato dei termini «assoluzione» e
«prescrizione» e non abbiano letto i passaggi
fondamentali della sentenza, c'è da chiedersi la ragione
di questa operazione di "occultamento della verità".
Ed è questo - ci pare - il problema politico fondamentale
posto dalle ultime propaggini del "caso Andreotti".
Proviamo ad abbozzare una risposta.
1. La verità e
la politica stanno sempre più imboccando strade diverse e
opposte. Lo ha dimostrato in modo evidente, sul piano
internazionale, la vicenda della guerra all'Iraq e delle (false)
ragioni addotte a sua giustificazione.
La logica, anche in
questa vicenda, è la stessa: non interessano i fatti ma la
realtà virtuale, costruita a beneficio e a vantaggio del
potere. C'è chi sostiene, senza pudore, che si tratta di
una necessità per mantenere il consenso dei cittadini.
Siamo, al contrario, convinti che sia una tappa della
trasformazione dei cittadini in sudditi e del deperimento della
democrazia (che smette di essere tale senza trasparenza e
verità).
2. Dire che il senatore Andreotti è
stato "assolto" anche in relazione ai fatti anteriori
al 1980 significa - come, del resto, è stato
esplicitamente affermato - "assolvere" un sistema di
governo, un modo di fare politica: non solo e non tanto per il
passato, quanto per il presente e per il futuro.
Significa
abbattere il discrimine tra morale e immorale e tra legale e
illegale.
Se frequentare mafiosi, chiedere e offrire loro
favori, discutere con loro finanche di omicidi - condotte tutte
ritenute provate nella sentenza della Corte di appello di Palermo
- è considerato lecito sotto il profilo politico e
giudiziario (come implica il termine "assoluzione"),
allora questo può essere un metodo di azione politica e
non deve destare scandalo se così fanno o faranno - non
ieri, ma oggi o domani - politici di primo piano nel panorama
nazionale e in quello siciliano.
3. Questo costume e
questa cultura, ancorché alle porte, incontrano tuttora,
tra gli altri, un ostacolo: alcune leggi e chi è chiamato
ad applicarle e lo fa con rigore e fermezza. Sta qui la ragione
fondamentale della "falsificazione" dell'esito del
processo, necessaria per condurre una ulteriore opera di
delegittimazione di chi ha doverosamente condotto le indagini (e,
insieme, dei magistrati che continuano a credere nei principi di
legalità e uguaglianza).
Per questo chiedere che
l'analisi del "caso Andreotti" avvenga a partire da
carte vere e non da "carte false" è un problema
di democrazia e non un inutile (e meschino) accanimento nei
confronti di un notabile ormai estraneo ai circuiti del potere
reale.
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