15 dicembre 2004
 
Venezuela per principianti
di Marina Minicuci
 
Sito della Rete

 

 
 
E’ difficile credere quanto sta accadendo in Venezuela perché è il sogno di tutte le persone che vorrebbero vivere in un mondo più giusto.

Se vogliamo provarci e tentare di avvicinarci alla comprensione della rivoluzione democratica che sta portando avanti il Presidente Hugo Chavez, dobbiamo anzitutto uscire da ogni schema precostituito.

La storia dell’attuale Presidente venezuelano inizia sul declinare degli anni settanta, quando questo militare poco più che ventenne fonda l’esercito rivoluzionario per la liberazione del Venezuela. Come egli stesso dice “ più lungo il nome del gruppo delle persone che lo componevano, che erano allora cinque”.

L’esercito venezuelano, a partire dalla generazione di Chavez, non ha alcuna analogia con gli altri dell’America Latina (come, per esempio, quello cileno che perpetrò il golpe contro Allende) perché a differenza di questi, non formò i suoi quadri nella Scuola delle Americhe ma all’Accademia Militare Venezuelana che aveva allora subito una profonda trasformazione con il piano Andrés Bello. Questo prevedeva per i quadri dell’esercito una formazione universitaria volta specialmente allo studio delle scienze politiche, alla conoscenza dei pensatori della democrazia e degli analisti della realtà venezuelana. Si studiavano Clausewitz, gli strateghi militari asiatici, Mao Tse Tung... Il giovane Chavez fu particolarmente colpito da alcune idee di Mao come quella che sostiene che la morale delle truppe è molto più importante di qualsiasi sofisticato mezzo tecnologico, o che il popolo sta all’esercito come l’acqua ai pesci. Dunque un esercito con (e non contro) il popolo.

Non vi era una casta militare. I militari provenivano da famiglie povere ed era fra loro diffuso il rifiuto di essere usati come strumenti di repressione. Inoltre, quella generazione di militari, si forma in un paese già pacificato, dove l’esercito attraversando le immense zone rurali invece che con la guerriglia deve fare i conti con la miseria dei contadini.

E mentre l’ideologia borghese tentava – e tenta - di far credere (e talvolta forse anche di credere) che i poveri sono tali perché non hanno spirito di iniziativa, preferiscono ubriacarsi invece che lavorare, sono poco intelligenti -e questo tipo di ideologia permea sovente anche le forze dell’ordine che noi conosciamo- i militari venezuelani hanno invece gli strumenti teorici ed empirici per comprendere che dietro la loro povertà c’è un’oligarchia che razzia tutte le ricchezze e ci sono gli Stati Uniti, vocazionali seminatori di oligarchie.

Un militare venezuelano, a partire dalla generazione di Chavez, è una persona vicina alla gente umile, dalla parte del popolo e di sinistra.

E’ necessario inoltre sapere che il Venezuela è un paese dove quasi l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà e dove l’oligarchia non è stata mai disposta a cedere neppure una miserabile percentuale dei propri privilegi per una meno ingiusta distribuzione della ricchezza. Nemmeno per un furbo calcolo. Esiste quindi una situazione di palese, non camuffabile, ingiustizia sociale.

Non si può peraltro comprendere la rivoluzione bolivariana senza guardare al contesto mondiale nella quale essa è inserita. Esiste oggi una correlazione mondiale di forze molto negativa per gli schieramenti progressisti. Con la sconfitta del socialismo nei paesi dell’est e specialmente nell’ex Unione Sovietica, è sparito dalla scena il socialismo con tutto il suo peso simbolico e pratico, e gli Stati Uniti si sono trasformati nella prima potenza militare mondiale senza alcun contrappeso, fino al punto che possono portare avanti una guerra contro l’opinione pubblica mondiale.

Vi sono inoltre nella strapotenza e prepotenza imperiale tutte le caratteristiche che precedono un’implosione. Le violente recrudescenze degli ultimi colpi di coda di uno Stato, il più potente e armato del mondo, con il suo nutrito seguito di potentati economici, mezzi di informazione e intellettuali prezzolati che hanno sviluppato, per difendere il sistema, un totalitarismo “democratico” che in poco tempo si è trasformato nella prima minaccia per la libertà dei popoli, la pace e la sicurezza internazionale. Ed è uno scenario che non potrà migliorare sostanzialmente perché gli Stati Uniti hanno bisogno di sottomettere altri paesi per mantenere il livello di consumi attuali, parassitari. L’unica uscita sarebbe dunque che arretrassero sensibilmente da quella opulenta società, cosa molto poco probabile se non a seguito dell’implosione del sistema occidentale che molti osservatori danno per scontata e che tuttavia non si può prevedere in che tempi essa avverrà.

Ma torniamo adesso al caso Chavez, questa esile ma grande speranza che si è accesa in America Latina, grazie ad una serie di congiunture fortunate e speriamo ripetibili.

Da un gruppetto di cinque persone, il giovane comandante Hugo Chavez va gettando radici in tutto il paese e rimpolpando le fila dei sostenitori con un incessante lavoro di dialogo con la popolazione. Finché nel 1992 avviene ciò che per noi occidentali –anche i più avvveduti- getta un’ombra su questo leader: il colpo di Stato fallito contro il corrotto governo dell’allora presidente Carlos Andrés Perez. Chavez dice al proposito che più che un golpe tentò un’insurrezione e che non sapeva se faceva bene o male, sapeva solo che allora non c’era altra strada per rovesciare quel governo e cambiare la situazione.

Comunque lo si voglia chiamare, certo è che il popolo, la cui partecipazione è sempre stata il primo obbiettivo perseguito dalla politica di Chavez, era dalla sua parte. Certo è che i militari decisero di non entrarono nel palazzo presidenziale con le armi quando si resero conto che avrebbero provocato un bagno di sangue. Certo è che prima di entrare in prigione Chavez si fece carico di ogni responsabilità dell’accaduto, in un paese – in questo non differisce dal nostro dove nessun politico assume mai la seppur minima responsabilità. Certo è che prima di entrare in carcere Chavez dichiara fallita l’insurrezione “por ahora” (per adesso) e quella frase diventerà uno slogan popolare che sta a significare “abbiamo perso una battaglia ma non la guerra e la lotta continua”.

Chavez dunque sparisce dalla scena, ma non la speranza che egli volesse continuare la sua lotta accanto al popolo. E’ un segnale non di sconfitta ma di temporaneo impedimento che getta un seme di quel che oggi Chavez, il suo popolo e tutto il mondo civile, raccolgono. Come egli stesso racconta “all’uscita del carcere ho ricominciato a girare tutto il paese agitando la bandiera di una nuova insurrezione, visitavo spesso anche altri paesi dell’America Latina dove immancabilmente ero accolto da titoli sui quotidiani come ‘è arrivato il dittatore’”.

Invitato a Cuba per la prima volta nel 1994, per tenere una conferenza, chiede – senza sperarci di avere un incontro con Fidel Castro. “Quando arrivai all’aeroporto, la delegazione che era venuta a prendermi mi condusse in una saletta riservata, dove seppi che Castro mi stava aspettando”. E’ l’inizio di un’amicizia, quest’anno decennale, “ci vediamo almeno una volta all’anno” – dice e di un sodalizio politico. “Quando ci troviamo ai grandi baracconi internazionali dove non si conclude mai niente – racconta Chavez “a parte le sontuose cene e lo spreco di denari per la realizzazione degli eventi, Castro mi dice “mi dispiace di non essere più l’unico diavolo!”

Siamo nel 1998, in Venezuela, il gruppo di militari chavista è smembrato da lotte interne e Chavez intuisce che il suo popolo rifiuta l’uso delle armi per prendere il potere. Decide così di integrarsi al processo elettorale. Ha tutti i mezzi di informazione contro e nessun mezzo economico. Il partito che rappresenta lo chavismo, il Movimento V Repubblica, è appena formato con un obbiettivo prettamente elettorale. Affrontare le elezioni presidenziali così – dicono tutti gli analisti è poco più che una puerile e farneticante utopia. Inoltre, racconta Chavez “mi rendo conto delle difficoltà nelle quali viene scientemente messa la povera gente per votare. A differenza della borghesia, essa non ha un documento di identità ma un foglio provvisorio. A differenza dei quartieri alti dove si vota in un attimo, la povera gente deve fare estenuanti code di giorni e notti e pertanto spesso non resiste al freddo, al sonno alla fame e rinuncia”. (Mi ha raccontato un ministro che con Chavez ed un altro pugno di persone ha aspettato i risultati dell’ultima consultazione di agosto, revocativa del mandato presidenziale, che l’unica preoccupazione di Chavez in quelle ore era che arrivassero alla gente, in coda alle urne, coperte, cioccalata, bibite calde).

Chavez , contro ogni pronostico, vince le elezioni del ’94 con il 56 per cento dei suffragi. A partire da allora ha realizzato altre 8 consultazioni democratiche che hanno convalidato alle urne l’appoggio popolare sul quale conta. Tenetelo a mente quando leggete o sentite dire che è un dittatore.

Chavez Presidente è convinto che per sanare la profonda crisi strutturale del suo paese non c’è altra via che una vera rivoluzione sociale. Convoca un’assemblea costituente atta a cambiare la corrotta e inefficiente struttura politico-giuridica del paese, attraverso nuove regole del gioco e iniziare una trasformazione economica e sociale. Convoca un referendum per approvare la Costituzione. Nuove elezioni per legittimae i mandati di Presidente, membro dell’Assemblea Nazionale, governatori, sindaci, consiglieri, giunte parrocchiali, direttivo della Confederazione dei Lavoratori del Venezuela (CTV)...

Infine, nell’agosto scorso, per la prima volta nella storia, un Presidente rimette il suo mandato nelle mani dei cittadini perché glielo riconfermino (la nuova costituzione venezuelana, approvata da questo governo, prevede che ciò possa realizzarsi a metà di un mandato presidenziale) e i cittadini glielo restituiscono a larga maggioranza, più del 60 per cento.

Chavez prosegue il suo racconto: “l’ultima moda imperiale – dice è che alle elezioni i candidati dei due schieramenti arrivino a una sostanziale quasi parità” (vedi Ucraina), “così se vince un candidato sgradito a Washington si denunciano brogli e si rifanno le elezioni” (con brogli, ça va sans dire). “Con me” – prosegue “gli è andata male un’altra volta”. Vari sono stati i tentativi di destituirlo, oltre al normale stillicidio quotidiano della calunnia e della menzogna. Ancora oggi Chavez ha solo una televisione (Canal 8) a suo favore che peraltro dispone di esigui mezzi economici e non compre l’intero territorio nazionale, tutte le altre tv e i quotidiani più importanti si dedicano giornalmente all’occultamento della verità, alla diffamazione, alla menzogna e, nella migliore delle ipotesi, all’omissione.

Quando ho chiesto alla gente che come facevano a mantenere integra la propria fiducia di fronte a tale menzognera propaganza, la risposta quasi unanime è stata: “spegnamo la televisione!”

Il fatto è che il popolo con Chavez ha recuperato la dignità, si sente accudito e ascoltato, vede i segni tangibili di un miglioramento progressivo della propria condizione ma sa anche che ciò che non si è ancora riusciti a realizzare non è per colpa di Chavez, ma dell’oligarchia che mette i bastoni fra le ruote, quando non le bombe come recentemente accaduto con il magistrato che aveva incarcerato gli autori del golpe ai danni di Chavez, nel 2002. Un colpo di Stato, durato 48 ore, del quale Chavez ha ottenuto i documenti CIA nei quali è provato che Washington sapeva esattamente mese e giorno in cui ciò sarebbe avvenuto e ha fatto le sue rimostranze al governo statunitense il quale “ha ammesso” –racconta- “che sì, effettivamente gli era arrivata comunicazione”.

C’è poi stato lo sciopero del petrolio che ha messo in ginocchio il paese. Dapprima il tentativo fu di fermare il paese economicamente, ma la maggior parte della manodopera volle continuare a lavorare nonostante i proprietari delle imprese tentassero di chiudere loro i cancelli in faccia. Il risultato fu uno sciopero localizzato sostanzialmente nei quartieri residenziali . Fallito questo tentativo si provò a far cadere il governo con lo sciopero del petrolio. E poiché la maggior parte dei lavoratori non era disposta a fermare la produzione, da parte dei gruppi dirigenti del Pdvsa (l’impresa petrolifera venezuelana) vi fu il tentativo criminale di sabotare le chiavi di accesso ai macchinari. Anche questo tentativo fallì grazie a nuovo personale altamente qualificato che scoprì il trucco.

Come ultima ratio, si tentò di bloccare il trasferimento petrolio nel paese e all’estero. Per settimane la via navale rimase bloccata. Chavez racconta quei giorni, in visita a un quartiere povero, “ una signora mi prende per la giacca e mi trascina nella sua baracca. Vedo che stanno cucinando qualcosa su pezzi di legno che ardono. La donna mi dice: “stiamo cucinando su quel che resta del nostro letto” e aggiunge: “Stia tranquillo Chavez, noi resisteremo. Resista anche lei!”

In quei giorni tutte le televisioni trasmettevano la medesima incessante litania : “fra poco cade il dittatore! Ancora qualche ora e ci saremo liberati di Chavez.” Abbiamo chiesto alla gente come facesse a sapere, nonostante il bombardamento mediatico, quale fosse la verità. Un signore ci ha risposto: “Il popolo è come le formichine, quello che sa una lo sanno tutte!” Concludendo è forse opportuno analizzare i punti di forza e quelli di debolezza del processo in atto.

La forza è nella stragrande maggioranza della popolazione che per la prima volta sente che quello è il loro Presidente, che ne ha totale fiducia, che è al corrente di quel che accade veramente nel paese. E’ molto più consapevole un contadino venezuelano della situazione nazionale e internazionale di quanto non lo siano molti dirigenti e uomini di cultura occidentali. E questo perché questa gente ha vissuto sulla loro pelle in modo diretto e lampante criminali ingiustizie e perché un loro leader naturale “un uomo del popolo infiltrato nel potere” – si dice di Chavez non perde occasione per raccontargli le macchinazioni ordite ai danni della gente povera.

Non vi è alcuna possibilità, allo stato attuale, che il popolo faccia mancare il suo incondizionato appoggio al Presidente. Fu esattamente il popolo che dopo il golpe del 2002 circondò in massa il palazzo presidenziale chiedendo il ritorno di Chavez. Furono in gran parte le donne ad animare la rivolta. A questo proposito, alcune di queste donne ci hanno detto: “i nostri mariti non volevano lasciarci andare, dicevano che ci avrebbero ammazzate. Ma noi abbiamo pensato che se non fossimo insorte, non avremmo mai più potuto sperare in un futuro migliore per i nostri figli, per la nostra gente”. Come già Chavez ci ha detto nell’insurrezione del 1992, anche loro – a ben vedere- pronunciano le stesse parole “ non sapevano se era giusto o sbagliato, se saremmo morte o avremmo vinto, sapevano solo che era l’unica strada possibile, non avevamo altra scelta”.

Le debolezze si farebbe prima a dire che sono tutte le altre. Chavez ha contro i sindacati, le alte gerarchie della Chiesa, i mezzi di informazione, gli impresari. In altre parole tutta l’oligarchia che ha organizzato il golpe contro di lui tentando di insediare il losco figuro Pedro Carmona che è il più autorevole industriale del paese (storiella sudamericana: “cerca un impresario onesto. Se Lo trovi, lo compro.”) Ha un partito infiltrato di meri opportunisti e diviso in una fazione schiettamente chavista e un’altra oscillante, quando non decisamente contraria e ostile. Una burocrazia con vecchi oligarchi corrotti di cui non sarà facile liberarsi. Ha contro Washington che come abbiamo già visto è complice, se non autore, del golpe e dei vari tentativi falliti di destituire un presidente che – per una volta si può proprio dire democraticamente eletto.

E anche il fatto che la rivoluzione dipenda da un solo leader è una grande debolezza. Chavez questo lo sa bene. Sa bene che ogni rivoluzione è un processo molecolare che esige un’organizzazione preparata per una lotta prolungata nel tempo. E questa è la ragione per la quale non nega alla sua gente che dovrà affrontare con grande interezza enormi sacrifici perché lo scontro che si sta perpetrando con il mondo occidentale, e l’oligarchia locale, non può che essere frontale e per questo alimenta il continuo fiorire i circoli bolivariani. Dalle ultime stime dovrebbero essere più di 200.000 nel territorio e contare più di un milione e mezzo di persone, a cui si sono aggiunte associazioni e organizzazioni di vari ordini professionali. E’ questa la ragione per la quale ci ha reso partecipi dell’urgenza di fare uscire la rivoluzione dai confini venezuelani, di farla conoscere con tutti i mezzi – pochi per tutti possibili.

In questo panorama le forze armate sono alleati imprescindibili. Chavez dice che la rivoluzione bolivariana non è una rivoluzione disarmata e dichiara di aver comprato fucile dai russi. Racconta che Washintgon ha protestato “forse volevano”- esclama- “che li comprassi da loro!” Basti pensare all’esplosiva situazione alla frontiera con la Colombia dove, molti dei militari implicati nel golpe contro Chavez del 2002 sono stati destinati. Dove esistono gruppi di guerriglieri prezzolati degli statunitensi. Una frontiera dove si concentrano paramilitari colombiani del governo fascita di Alvaro Uribe, mercenari, narcotrafficanti... Da lì potrebbe verosimilmente partire la destabilizzazione che molti studiosi danno per scontata come una opzione per fermare la rivoluzione democratica del Presidente venezuelano. O forse potrebbero tentare un altro Colpo di Stato o uccidere il Presidente con il quasi certo risultato di scatenare una guerra civile nel paese.

O forse, lo speriamo con tutto il cuore, la rivoluzione bolivariana potrebbe diffondersi in altri punti dell’America Latina e rafforzarsi. In Bolivia, per esempio, le ultime elezioni regionali lasciano ben sperare: sono stati eletti moltissimi sindaci e governatori di stampo chavista. Speranze si ripongono anche nel nuovo Presidente Uruguaiano. E’ ancora molto poco ma è speriamo che sia solo l’inizio.

Chavez potrebbe riuscire a portare avanti alcuni degli importanti progetti che ci ha manifestato. La creazione di una Banca Centrale e un Fondo Monetario Latino Americano che sgancerebbe quel pezzo di mondo dal dominio e dalla speculazione imperialista. La fondazione del Petrolsul, volta a radunare le imprese petrolifere venezuelana, messicana, argentina e brasiliana. Potrebbe, come nei suoi desideri, riuscire a smontare l’Alca (Area di Libero Commercio delle Americhe) per trasformarla in Alba (Alleanza Bolivariana per le Americhe). Potrebbe... e che ci riesca è più che una speranza.


-- Continua --

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