10
febbraio 2005 Mafia e
Stato, dalla convivenza all'alleanza Introduzione
a Intoccabili di Paolo
Sylos Labini Editore
Rizzoli.Bur
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Per
gentile concessione dell'editore, pubblichiamo Mafia
e Stato, dalla convivenza all'alleanza,
l'introduzione di Paolo Sylos Labini a "Intoccabili" il
nuovo libro – nelle
librerie da pochissimi giorni –
di Saverio Lodato e Marco Travaglio (Ediotre Rizzoli-Bur,
10 euro).
Chi
legge questo libro, alla fine, non può non porsi una
domanda: come siamo potuti cadere così in basso?
Possibile che la guerra alla mafia, che soltanto dieci
anni fa pareva non lontana dal successo, sia finita così
male, addirittura con la mafia al potere? E ancora: possibile
che il «popolo di geni» di cui vaneggiava Mussolini
continui a credere, dopo dieci anni, alle atroci menzogne di un
Berlusconi e della sua corte dei miracoli? Verrebbe da
concludere che siamo un popolo di imbecilli e di malfattori,
altro che geni.
Ma, prima di abbandonarci
all'angoscia e alla disperazione, proviamo a ragionare.
Al
fondo c'è un micidiale, radicale cinismo che domina tutto,
un'assuefazione al malaffare che diventa ambiente e costringe le
persone civili e oneste – ce ne sono ancora, e tante –
a una ammutolita paralisi. Perciò è
importante che escano e circolino libri come questo. Perché
sono una delle poche armi che ci rimangono per trovare o
rinfocolare il coraggio di combattere.
È
l'informazione particolareggiata dei fatti che dà
coraggio. Solo la verità può rendere liberi
quanti oggi non vogliono essere servi, ma finiscono per esserlo
inconsapevolmente, col torpore rassegnato che li paralizza.
Una condizione che io spiego non solo col nostro machiavellico
cinismo, ma anche con qualcosa di ancora peggiore: una grave
carenza di autostima, come direbbe Adam Smith; un diffuso
autodisprezzo, come dico io. Spesso, dopo infinite
discussioni su questi temi, mi capita di sentire da persone di
«destra» e di «sinistra» la terribile
battuta: «Ma che diavolo pretendi, in fondo siamo
italiani!». E ogni volta mi domando perché ci
siamo ridotti in questo stato miserabile, in questo abisso di
abiezione che, sotto certi aspetti, è peggiore di quello
in cui ci aveva cacciati Mussolini.
Certo,
la mancanza di senso dello Stato, che deriva dalla mancanza di
uno Stato. Certo, la superficialità della cultura
popolare e la grave debolezza della borghesia intellettuale ed
economica spiegano il carattere volubile dell'opinione pubblica e
la facilità con cui viene sistematicamente ingannata per
mezzo del micidiale potere persuasivo del monopolio televisivo.
Certo, i guasti della Controriforma senza Riforma. Certo, i
sottoprodotti della morale cattolica, che privilegia la
misericordia piuttosto che la giustizia. Non tanto perché
sia migliore il protestantesimo rispetto al cattolicesimo, ma
perché da noi la Chiesa ha avuto il potere temporale, e
dunque ha usato la religione come instrumentum regni.
Mi
ha sempre colpito il racconto di Nassau Senior, un economista
mediocre, famoso più che altro per gli attacchi che gli
riservò Karl Marx. A metà dell'Ottocento la
sua passione per i viaggi e per la conoscenza dei potenti
d'Europa lo portò a Roma, dove conobbe il papa e dipinse
un quadro raccapricciante dello Stato pontificio.
Senior
racconta di un confessore che, a una donna con un figlio di idee
liberali, impose di denunciarlo con tutti i particolari in cambio
dell'assoluzione. La donna ci pensò qualche giorno,
poi denunciò il figlio, che fu arrestato e
torturato.
Come meravigliarci, allora, se l'Unità
d'Italia non s'è mai davvero compiuta, se il bene comune
non è mai stato considerato come un obiettivo di tutti, a
dispetto del nostro nazionalismo di cartapesta?
L'uomo è
un animale sociale e aspira ad avere l'orgoglio di appartenere a
una comunità: la famiglia, il gruppo, la patria.
Ora, la Patria in Italia è venuta tardi e in condizioni
infelici. Ancora un secolo fa l'analfabetismo era
gigantesco. Quando all'inizio del Novecento Salvemini si
batteva per il suffragio universale, le persone che avevano
diritto al voto erano il
6-7%
della popolazione. Con una legge di Giolitti salirono al
20%, perché per votare bisognava saper leggere e scrivere
e avere un piccolo peculio; il voto, poi, era concesso solo agli
uomini. Il pericolo del fascismo lo capirono in pochi,
all'inizio. Lo stesso Benedetto Croce fu per anni
filofascista e, da senatore, votò a favore di Mussolini,
anche dopo il delitto Matteotti. Solo in seguito divenne uno dei
padri dell'antifascismo. Anche nell'esigua cultura liberale
dell'epoca, quelli che denunciarono il regime fin dall'inizio non
furono molti: Piero Gobetti, Giustino Fortunato e pochi
altri.
Retorica a parte, il cosiddetto impero e poi la
seconda guerra mondiale, con tutti quei richiami all'antica Roma,
non potevano certo far crescere l'autostima del popolo italiano e
quindi l'amor di Patria. E infatti l'ubriacatura passò
in fretta, con la campagna di Grecia, che svelò a tutti la
nostra assoluta impreparazione. L'ostilità al regime
divenne diffusa e fortissima e poi la sconfitta apparve
ignominiosa proprio perché gli Italiani si resero conto
dell'irresponsabilità del capo, che si autoproclamava
infallibile ma che aveva gettato l'Italia in quelle condizioni
nella fornace di una guerra terribile. Penso che la morte
della Patria – speriamo temporanea – risalga a quella
tragedia.
Attenzione: anche la mafia è una
comunità, con le sue regole, il suo codice, il suo
diritto, le sue istituzioni. Per coloro che ne fanno parte,
pure se si definiscono «uomini d'onore», è più
difficile provare orgoglio. Ma è più facile
toccarne con mano i benefici: ricchezze, potenza, protezione.
La
studio da quarant'anni, la mafia: da quando Giangiacomo
Feltrinelli, nel 1958, mi propose di organizzare un gruppo di
ricercatori – io ero professore a Catania – per
condurre un'indagine ad ampio raggio in Sicilia, che alla fine
diventò un corposo volume di 1500 pagine. Nel giugno
1965, dopo Catania, fui ascoltato dalla commissione parlamentare
Antimafia, presieduta dal senatore Donato Pafundi (la mia
deposizione fu poi pubblicata nel 1970 da Laterza in Problemi
dello sviluppo economico).
Nel 1974, come si
ricorda in questo libro, mi dimisi dal comitato
tecnicoscientifico del ministero del Bilancio, di cui facevo
parte da circa un decennio, quando il titolare di quel dicastero,
Giulio Andreotti, nominò sottosegretario Salvo Lima.
Siccome Lima compariva più volte nelle relazioni
dell'Antimafia ed era stato oggetto di ben quattro richieste di
autorizzazione a procedere della magistratura, feci presente la
cosa al mio amico Nino Andreatta, perché ne parlasse con
Aldo Moro, presidente del Consiglio. Qualche giorno dopo
Andreatta tornò da me con la coda fra le gambe: Moro gli
aveva confessato la sua impotenza, perché – gli
aveva detto – «Lima è troppo forte e troppo
pericoloso». Allora affrontai l'argomento
direttamente con Andreotti, dicendogli: «O lei revoca la
nomina di Lima, che scredita l'immagine del ministero, o mi
dimetto». Non mi lasciò neppure finire: mi
interruppe e mi liquidò dicendo che ne avremmo parlato
un'altra volta. A quel punto resi ufficiali le dimissioni.
La mia lettera fu pubblicata dal Corriere della Sera e da
vari altri giornali, e la cosa fece un certo scalpore per alcune
settimane. Ci furono anche delle vibrate proteste dei
giovani Dc. Poi calò l'oblio. Di quella
faccenda si tornò a parlare quando Gian Carlo Caselli e i
suoi pm mi chiamarono a testimoniare al processo Andreotti: era
chiaro, da quell'episodio, che Andreotti –
e
non solo lui – sapeva benissimo chi era Lima. Lo
sapevo persino io...
La cosa che mi colpì fu
che il mio gesto fu visto come prova di coraggio non comune.
È deprimente che, in Italia, un gesto di normale decenza
venga visto così.
Dà
la misura di come ci siamo ridotti. Tutti mi domandavano:
ma come ha fatto, dove ha trovato la forza? Io rispondevo: ma
quale forza, ma quale coraggio?
C'era
una persona che non ritenevo perbene, non volevo lavorarci
insieme, e me ne andai. Tutto qui. È stato
facile.
Nella deposizione prima ricordata ho
cercato di chiarire i miei punti di vista sulle origini della
mafia e sulle sue caratteristiche attuali. Ma che cosa sia
oggi, questo libro di Lodato e Travaglio lo spiega benissimo.
Mafia vuol dire appalti, licenze edilizie, aree
fabbricabili, sistemi di irrigazione, controllo dei mercati
ortofrutticoli e sull'acqua, cioè sulla vita dei
siciliani, e poi commercio di droga e altri affari sporchi, ma
anche «puliti» come il Ponte sullo Stretto e la
grande mangiatoia della sanità pubblica. Ma,
soprattutto, mafia vuol dire agganci con la politica, con
l'economia, con pezzi delle istituzioni che non saprei nemmeno se
chiamare «deviate» oppure no (in questo paese i
deviati rischiano di essere quelli che la mafia la combattono
davvero).
Sono queste le sue assicurazioni sulla vita, le
ragioni della sopravvivenza di un'organizzazione tutto sommato
arcaica in pieno terzo millennio.
Il libro spiega anche
com'è cambiata l'antimafia, o forse come non è
cambiata, essendo sempre stata affidata a pochi «volontari»,
isolati e forse anche un po' matti. Cioè a una
élite di poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti,
intellettuali e politici che hanno maturato, non si sa come, quel
senso dello Stato e dell'autostima che non è mai diventato
patrimonio di tutti.
La cultura delle regole, il
senso della legalità, l'amore per la trasparenza sono da
sempre minoritari, in Italia. Per una serie infinita di
fattori storici, da noi non s'è mai affermata una cultura
liberale e democratica di massa: i liberalsocialisti come i
liberalconservatori sono sempre stati quattro gatti, guardati con
un misto di sospetto e di curiosità dai ceti
dominanti.
Il che spiega perché l'autoritarismo,
come la cultura mafiosa, hanno sempre trovato terreno fertile.
E spiega anche perché oggi il regime berlusconiano,
terribile sintesi della cultura autoritaria e di quella mafiosa,
incontra resistenze così scarse.
Hanno ragione gli
autori del libro quando, a proposito della mafia, parlano di
«cosiddetto Antistato». Perché troppo
spesso i confini fra Stato e Antistato sono confusi, invisibili,
vischiosi, come quelli fra legalità e illegalità.
Anche
la mafia è stata, nel corso dell'ultimo secolo, un
instrumentum regni da imbrigliare e utilizzare per scopi di
potere. La sentenza Andreotti, che qui viene finalmente
raccontata per quello che dice davvero, dopo anni di bugie
infami, è illuminante. La politica combatte Cosa
Nostra quando alza troppo la testa, quando pretende di comandare
anziché collaborare, poi torna al tavolo della trattativa
per stabilire nuovi patti e nuovi equilibri. L'uomo
politico che chiede favori alla mafia non può poi agire
autonomamente e tanto meno prendere misure contro la mafia,
credendosi forte del suo potere politico.
Se
lo fa, viene punito. Mutando quel che va mutato, questo
vale anche per chi entra in rapporti di dare e avere con
Berlusconi.
E non mancano le tragedie greche.
Mattarella aveva due figli che vollero cambiare linee di
condotta; uno divenne presidente della Regione siciliana e decise
di ostacolare la distribuzione degli appalti alla mafia. Fu
assassinato. Chi è visto come ostacolo all'eterna
trattativa fra politici e mafiosi – cioè le élites
più avanzate della politica, della cultura e della
magistratura – viene isolato come un fastidioso ingombro e
tolto di mezzo. Col tritolo o con le campagne mediatiche di
delegittimazione.
Oggi, poi, la politica intesa
come mediazione fra Stato legale e Stato illegale ha fatto un
altro salto di qualità: il ministro Lunardi, quando dice
che «con la mafia bisogna convivere», pecca di
minimalismo. Fino ad Andreotti, lo Stato conviveva con la
mafia. Oggi, con i Berlusconi e i Dell'Utri al potere, dei
quali anche questo libro dimostra inoppugnabilmente i legami con
la mafia, è peggio di prima, peggio di sempre: dalla
convivenza siamo passati all'alleanza.
Una vera lotta alla
mafia si può fare soltanto con un governo che non abbia
rapporti con la mafia. Un governo che non sia come quello
di oggi, e come molti di ieri. Certo, quando sarà
passato il lungo incubo che ha spazzato via i due o tre anni di
successi seguiti allo choc delle stragi del 1992-93, sarà
difficile ricominciare. Perché questo lungo incubo,
che si chiama Berlusconi e dura ormai da dieci anni anche per le
furbizie di un'opposizione debole se non addirittura complice, ha
vieppiù abbassato la nostra già scarsa autostima.
In una spirale perversa che non sembra avere mai fine, ha creato
ulteriore assuefazione. E ha fiaccato le speranze e gli
entusiasmi che sarebbero necessari per riprendere la lotta.
L'antimafia è affidata ai «pochi pazzi
malinconici» di cui parlava Salvemini. Io mi sento un
pazzo triste ma arrabbiato: e forse quel che mi salva è
proprio la rabbia.
Non
è questione di ottimismo o di pessimismo. Occorre
ritrovare il realismo che nasce dalla conoscenza della nostra
storia, con le sue luci e le sue ombre. Non bisogna mai
dimenticare né le une né le altre.
Per
me, poi, c'è anche una lunga esperienza personale, che,
con mia meraviglia, ebbe una conclusione positiva. Ricordo
quando mi scontrai con Giacomo Mancini, che nel Psi era una
potenza e in Calabria un ras incontrastato. Pretendeva che
la nuova università di Cosenza sorgesse in una zona che
gli stava a cuore per certi interessi suoi o dei suoi amici.
Andreatta e io, in quanto membri del comitato che doveva
organizzare la nuova università, contrastammo le sue
manovre e riuscimmo a farla nascere in tutt'altro luogo, molto
più adatto al suo sviluppo.
Mancini
pretendeva pure che dovessimo dare un incarico d'insegnamento a
un suo protetto. Tutto ciò al prezzo di una denuncia
e di un'incriminazione da parte di un giudice legato a Mancini,
che mi tenne sotto inchiesta per anni, privandomi addirittura del
passaporto (per due lustri fui costretto, ogni volta che andavo
all'estero, a recarmi alla Farnesina e chiedere un permesso
speciale per l'espatrio). Poi, quando scemò
l'influenza di Mancini, ebbero finalmente il coraggio di
assolvermi. Con formula non piena, ma pienissima: «il
fatto non sussiste». Erano tutte calunnie. Oggi
l'Università della Calabria funziona bene, con ottime
attrezzature e 26.000 studenti. Mi hanno anche invitato,
come uno dei padri fondatori. È una storia a lieto
fine: mi è costata molte pene, ma è stato giusto
patirle. L'esperienza è incoraggiante, perché
dimostra che chi intraprende una battaglia civile non è
condannato al fallimento: se ha tenacia, può
vincere.
Intendiamoci. Dinanzi al quadro che emerge
dal libro, la tentazione sarebbe quella dell'angoscia e della
disperazione. La prima è sacrosanta, e anche
salutare. La seconda no, guai a disperare: a mente fredda,
sarebbe un errore. Scriveva Calamandrei nel suo diario il 23
novembre 1939: «la tragedia dell'Italia è proprio
questa generale putrefazione morale, questa indifferenza, questa
vigliaccheria».
Ma poi venne la Resistenza:
non tutti furono eroi veri, molti furono eroi per caso o per
necessità. Ma il nucleo forte trascinò tanti,
contribuì a liberarci dal nazifascismo e – con uno
di quei miracoli che a volte fanno le minoranze agguerrite –
ci regalò la Costituzione, che oggi è presa a colpi
di piccone dalla banda Berlusconi. Ecco, lo stesso direi
oggi per la lotta alla mafia: in alcune fasi storiche –
quella di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino, e poi
quella di Caselli e dei suoi uomini – le minoranze che si
sentono Stato e Patria hanno trascinato la maggioranza verso
esiti straordinari, oggi in via di smantellamento.
Questo
libro, perforando il sudario di un'informazione serva e di una
disinformazione organizzata, ci aiuta a conoscere tali
risultati. E dunque a non dimenticarli, anche se la
luminosa stagione che li ha determinati è finita da un
pezzo.
Quanto sia stata importante lo dimostrano i
continui tentativi di deturparne il ricordo: da parte sia di chi
ne parla male, sia di sepolcri imbiancati che ne parlano bene.
Intanto anche nella magistratura, in sintonia con le esigenze di
politici senza scrupoli, si manifestano le viltà, i
servilismi, il «tirare a campare», i compromessi
meschini. Ma finirà anche questa stagione buia.
L'importante è sapere che contro la mafia e i suoi
protettori nelle istituzioni e nei consigli di amministrazione si
possono fare grandi cose.
Si sono fatte grandi cose.
Se la prima e la seconda ondata dell'attacco, come quelle dei
fanti in certe battaglie della prima guerra mondiale, sono state
decimate e respinte, la terza potrà avere successi più
duraturi. Basta aver chiaro fin da subito che anche quella
sarà una battaglia di minoranza, e anche per quella
bisognerà mettere in conto la solitudine.
Intanto,
per preparare la battaglia, bisogna conoscere. È
fondamentale l'informazione. L'attacco va portato con fatti
inoppugnabili e documentati. Come quelli raccontati in
questo libro, che ci aiuta a capire da chi e come siamo stati e
siamo governati, ma anche come si è riusciti a sconfiggere
il pool di Caselli, come già quello di Borrelli a Milano.
E, soprattutto, perché.
Ci sono verità
troppo forti perché il Potere le affidi a cuor leggero a
magistrati «ingestibili», che intendono applicare
semplicemente la legge in maniera uguale per tutti. Quelle
verità, quando sono ormai scritte in sentenze definitive –
come quella su Andreotti – devono essere per forza
cancellate e oscurate, perché non giungano sotto gli occhi
dell'opinione pubblica. Per quelle, invece, ancora
giudiziariamente da accertare (dalle varie «trattative»
fra Stato e mafia al capitolo dei «mandanti occulti»
delle stragi), si seguono i canoni della «guerra
preventiva»: si tolgono di mezzo i magistrati che
potrebbero, presto o tardi, scoperchiarle.
La
mafia, come ogni forma di illegalità, campa e ingrassa
sull'ignoranza. E nel nostro regime di oggi l'ignoranza
viene diffusa a reti unificate, facendo leva sui nostri due
peggiori vizi nazionali, i sottoprodotti della nostra scarsissima
autostima che spesso copriamo col patriottismo ipocrita: la
cupidigia di servilismo e la cupidigia di abiezione.
Chi
vuole conoscere, o perlomeno intravedere, le verità
indicibili che oggi costituiscono la vera posta in gioco non ha
che da leggere questo libro. Più sarà diffusa
la conoscenza, più sarà difficile l'insabbiamento.
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